Percorsi di Conoscenza
I
Lo Spirito e l'Anima
1.1 Lo Spirito
Il termine spirito, che traduce il greco pnêuma e l'ebraico rûach, nella sua più antica accezione significava respiro, aria, soffio animatore, energia vitale perché manifestata nella respirazione. Di qui, in molte tradizioni, la dimensione spirituale diviene rappresentazione della potenza di Dio, con la quale egli opera avvenimenti straordinari e misteriosi sia nella creazione, sia attraverso le imprese sovrumane di certi uomini da lui scelti. Il concetto di spirito è soggetto a molte interpretazioni, nessuna delle quali ha valore scientifico; in generale s’intende il principio immateriale che dirige tutto il comportamento umano e che ha in sé le cause prime dell'azione. In questo senso lo spirito si distingue dalla mente, in cui è presente un'attività razionale che può identificarsi con il pensiero.
Secondo le teorie dualiste, lo spirito si contrappone alla materia restando svincolato dalle leggi che la regolano, superando la dimensione spazio-temporale, imponendo ad essa la sua volontà. Già in San Paolo troviamo la contrapposizione tra lo “spirito” e la “carne”, quindi sin dalle origini, il pensiero cristiano intende lo pnêuma, in senso immateriale, come soffio divino animatore dell'universo e infine come anima di Dio e poi dell'uomo. La teologia e la filosofia cristiane parlano pertanto, oltre che dello Spirito Santo, di “spiriti puri” (Dio e gli angeli) e di “spiriti infiniti”, dai quali si distinguono gli “spiriti finiti”, vale a dire le anime umane.
Il dualismo propone la realtà come il prodotto della contrapposizione di due valori opposti, l'uno materiale e l'altro spirituale; il monismo afferma l'unicità della realtà.
Esistono due posizioni moniste: quella materialista e quella idealista. Nel materialismo che prevale oggi nel campo delle scienze, è considerata una sola dimensione, la materia, traducibile in valori e rapporti quantitativi. In questo approccio lo spirito è inteso come manifestazione della materia stessa ed è determinato dalle sue leggi.
L'idealismo, invece di fondarsi sulla materia e le sue leggi, colloca alle basi della realtà l'attività di una mente o di uno spirito ordinatore. Contrariamente al materialismo, che considera reale soltanto ciò che è tangibile, spaziale, corporeo, misurabile e sensibile; l'idealismo considera la realtà ciò che è incorporeo, extrasensibile e fuori dello spazio. In questa prospettiva, lo spirito diviene il creatore della materia e delle leggi che la determinano; questo monismo idealistico, si trova nella maggior parte delle grandi religioni in cui tutto è percepito in funzione di un unico valore spirituale.
Il Grande Dizionario Garzanti della Lingua Italiana, così definisce il termine dualità: “1 qualità di ciò che è composto di due elementi o principi; 2 (filos.) il rapporto esistente tra due principi antitetici e irriducibili l'uno all'altro”. Sceglierò tra queste due definizioni la prima, infatti, in molte culture extraeuropee, il concetto di dualità si manifesta slegato o non necessariamente legato a quello di conflitto e antitesi, esprimendosi invece come il coesistere di due elementi o principi fondamentali, anche contrastanti. In questo lavoro quindi, utilizzerò il termine dualismo con riferimento a quelle forme di pensiero, religioni o filosofie, fondate sulla contrapposizione tra due principi e dualità in relazione a quei sistemi che non si fondano sulla contrapposizione tra due elementi, bensì sulla loro convivenza. La dualità implica un concetto dinamico di continua trasformazione in senso circolare ed è assimilabile, per qualche verso, al principio di dualità in matematica: “Un enunciato (postulato o teorema) relativo a due enti matematici (punto-retta, retta-piano, punto-piano, ecc) è trasformabile in un altro altrettanto valido scambiando un ente con l'altro e adattando opportunamente l'enunciato stesso”.[1]
In questo scritto considererò la spiritualità come quella disposizione dell'animo che è alla base delle esperienze legate alla propria interiorità, unita ai sentimenti e ai pensieri intimi, alla sperimentazione di spazi alternativi al qui e ora.
La spiritualità quindi com’esperienza d’uomini e donne, comune a tutta l'umanità, legata all'inconscio collettivo e all'inconscio personale.
A mio parere non è necessario stabilire se la spiritualità sia esperienza unicamente psicologica, esclusivamente legata ad una sfera soprannaturale e trascendente, oppure ad entrambe le cose; non ci è dato di saperlo e neppure trovo interessante disperdere energia in una diatriba che ha impegnato teologi, filosofi e scienziati per centinaia d’anni senza fornire risposte che non siano fideistiche. Ciò che conta è la sua inequivocabile presenza nella sfera psichica di ognuno e la sua fondamentale importanza per l'equilibrio degli esseri umani. Negare la dimensione spirituale significa dimezzare l'individuo, impedirgli di esprimere una parte fondamentale di se stesso.
A mio parere non esiste dicotomia spirito-materia: esiste la Forza.
Con Forza intendo quello che nella tradizione indiana è definito Prana. Questo termine si traduce come respiro, respirazione, vitalità, forza, vento, spirito, soffio vitale (appare evidente l'analogia con il concetto greco di pnêuma e quello ebraico di rûach). Il Prana è l'anima del mondo, una forza cosmica universale che avvolge la terra, circola nell'atmosfera, nel suolo e nel corpo umano, dove esplica l'attività motoria e vitale. Molte popolazioni del pianeta, hanno elaborato un concetto di forza che permea e dirige l'universo, per designare questa forza gli etnologi hanno scelto il termine melanesianoMana. Molti ricercatori hanno trovato analogie tra il significato di Mana e altri termini quali Orenda,Manitu, Wakan Tanka (America), Wakau od Orunguilla (Australia), Ondah (pigmei africani), Hasina(Madagascar), tendendo a riconoscere nel Mana un'esperienza universale, un archetipo. Naturalmente gli aggettivi che sono utilizzati dalla maggior parte degli scienziati occidentali per definire questa percezione del mondo sono normalmente: primitivo, elementare, infantile; se il sentimento espresso verso questi popoli “primitivi” non è il disprezzo, molto frequentemente l'atteggiamento è di serena superiorità e bonaria compiacenza che si riserva ai bambini. Ritengo, che i bambini abbiano molto da insegnare ad un mondo adulto intrappolato nelle nevrosi, e in una visione dell'uomo centrata sull'avere e sull'ego. Siamo ciò che abbiamo e ciò che produciamo, infatti, molte persone, fuori del ciclo produttivo smettono di esistere. Per l'esponente medio della cultura occidentale esiste una piramide sovrastata dal nulla o da un dio nevrotico, perbenista e geloso; sul vertice della piramide è seduto il maschio bianco, un po' più in basso, ma non troppo, c'è la femmina bianca; poi, a seguire, uomini e donne d’altri colori, animali, piante e minerali. Sarò infantile, ma sono immagini che non mi piacciono molto, anche se sono un maschio bianco inserito nel ciclo produttivo.
In lingua lakota, il termine wakan, significa “sacro”, talvolta “santo” ed è strettamente connesso con la dimensione spirituale; alcuni etnologi lo traducono anche come “potente”, il che è corretto, se consideriamo il “potere” di un essere in collegamento alla sua sacralità e alla capacità di riflettere nel modo più diretto il principio o i principi che sono in Wakan-Tanka, il Grande Spirito. È interessante notare che in lingua lakota wakan significa anche “mistero” e “misterioso”, perciò il principio universale si può definire come Grande Mistero. Questa mi pare una delle definizioni più sensate e adatte della Forza Universale, perché si riferisce ad una dimensione di cui nulla conosciamo e che non siamo certo in grado di misurare scientificamente. A questo punto mi sembra importante citare un brano tratto dal messaggio che la Confederazione Irochese delle Sei Nazioni ha inviato al mondo occidentale: “Un filo d'erba è una forma d’energia espressa in materia: la materia-erba. Lo spirito dell'erba è questa forza invisibile che produce le diverse specie dell'erba ed essa si manifesta a noi sotto forma dell'erba reale. Tutte le cose del mondo sono cose reali, materiali. La Creazione è un fenomeno vero e materiale ed essa si manifesta a noi attraverso la realtà. L'universo spirituale, allora, si manifesta all'uomo sotto la forma della Creazione, la Creazione che sorregge la vita. Noi pensiamo che l'uomo sia un essere reale, una parte della Creazione, e che suo dovere sia mantenere la vita in unione con gli altri esseri.
È per questo che noi ci chiamiamo Ongwhehon-whe - il Vero Popolo -.
Le istruzioni originarie ci raccomandano, per noi che camminiamo sulla terra, di avere un grande rispetto, una grande affezione e gratitudine verso tutti gli spiriti che creano e mantengono la vita”.[2]
Quindi considereremo la spiritualità come una dimensione riguardante una forza duale e non dualista che permea l'intero universo; una forza misteriosa e inconoscibile, non descrivibile né misurabile, a cui è impossibile attribuire caratteristiche e limiti; ma anche come una disposizione dell'animo rivolta alla propria interiorità. Le due cose non sono in antitesi, come nella contrapposizione spirito-materia, al contrario, rappresentano due aspetti che l'antico insegnamento della Tavola di Smeraldo, comparsa nel medioevo e attribuita ad Ermete Trismegisto, mette in evidenza: “Ciò che è in basso è come ciò che è in alto, e ciò che è in alto è come ciò che è in basso; con queste cose si fanno i miracoli da una sola cosa. E come tutte le cose sono e pervengono dall'Uno, attraverso la mediazione dell'Uno, così tutte le cose sono create da questa cosa unica per adattamento... Tu separerai la terra dal fuoco, il sottile dallo spesso, lentamente, con grande industriosità. Esso sale dalla terra e discende dal cielo e riceve la forza delle cose superiori e delle cose inferiori. Tu avrai con questo mezzo la gloria del mondo e ogni oscurità fuggirà da te”.[3] Generazioni di alchimisti si ispirarono a queste parole per il compimento della Grande Opera, che non è soltanto la trasmutazione del piombo in oro, ma quella della materia nello spirito e ancor più, in una spiritualizzazione dell'universo.
Nel Tao-teh-ching è scritto: “C'era qualcosa di caotico e perfetto prima che il cielo e la terra nascessero. Silenziosa, vuota, sta da sola e non cambia. Gira intorno instancabile. Si può considerare la madre dell'universo. Io non conosco il suo nome, ma la chiamo con l'appellativo 'via'. Sforzandomi di classificarla la chiamo 'grande'. 'Grande' significa 'oltrepassare'; 'oltrepassare' significa 'andare lontano'; 'andare lontano' significa 'tornare'. Quindi: la via è grande, il cielo è grande, la terra è grande, anche l'uomo è grande. Nell'universo ci sono quattro (cose) grandi, e l'uomo è una di queste. L'uomo ha per modello la terra; la terra ha per modello il cielo; il cielo ha per modello la via; la via ha per modello se stessa”.[4]
I simboli ritornano, si confermano da un punto all'altro del pianeta e stanno a significare che la dimensione spirituale, qualunque cosa sia e qualunque cosa rappresenti, esiste, è percepita ed è fondamentale nella vita di un essere umano; ecco perché è essenziale considerarla nell'ambito di un percorso di crescita personale e più in generale all'interno delle nostre vite.
Molti studiosi di formazione positivista e materialista, degni per altro di rispetto umano e stima professionale, si sforzano di rendere la vita un atto scientifico, possibilmente asettico e certamente non inquinato da sciocchezze quali lo spirito. Pur concordando sulla fondamentale importanza della scienza nell'approccio alla realtà, ritengo che riappropriarsi della dimensione spirituale, nel senso in cui ne ho sino ad ora scritto, sia essenziale per l'umanità. È pur vero che in questo periodo i termini spirituale e spiritualità sono inflazionati e spesso utilizzati da personaggi di dubbia attendibilità, che speculano su un reale bisogno delle persone per arricchirsi o per nutrire un ego smisurato, mal celato dietro nuvole d'incenso e il suono di musiche new age, per cui è necessario essere prudenti. È altrettanto necessario non confondere l'emozione, il sentimentalismo, la sessualità o il bisogno di rapporti umani, con la spiritualità, che sicuramente può aver a che fare con questi aspetti, perché lo spirito potrebbe permeare ogni nostra azione, ma è altro da essi.
Molte delle persone che seguo individualmente o che incontro durante i seminari di Attenzione Interiore da me condotti, esprimono un disagio che va oltre quello della dimensione psicologica. Percepisco nelle persone un senso di scollamento dal mondo, uno smarrimento generato da una società sempre più centrata sull'apparenza, sulla forma, sull'esteriorità e la superficialità. Avverto nella gente una difficoltà a identificarsi con un simbolismo intimo che non è più alimentato né dalle richieste esterne all'individuo, né da quelle interiori. Scriveva C.G. Jung nel 1934 in Gli archetipi dell'inconscio collettivo: “In realtà, l'uomo ha scoperto una cosa sola: che alle proprie immagini non ha riflettuto ancora affatto. E quando comincia a riflettervi, lo fa con l'aiuto di ciò che egli chiama 'ragione', ma che in realtà non è altro che la somma delle sue prevenzioni e delle sue miopie... Quando abbiamo cercato di coprire la nostra nudità con sfarzosi abiti orientali, come fanno i Teosofi, siamo stati infedeli alla nostra storia; non ci si riduce prima alla mendacità per poi posare da re indù da teatro. Sarebbe cosa migliore, mi sembra, riconoscere decisamente la nostra povertà spirituale, conseguente alla mancanza di simboli, anziché arrogarsi una illusoria ricchezza della quale assolutamente non siamo eredi legittimi... Chi ha perduto i simboli storici e non può accontentarsi di 'surrogati', si trova oggi, è indubbio, in una situazione difficile: dinanzi a lui si spalanca il nulla da cui ci si ritrae spaventati. Anzi, peggio: il vuoto si riempie di idee politiche e sociali assurde, che si distinguono tutte per il loro squallore spirituale”.[5] Tenendo conto di cosa la storia ci ha mostrato negli anni seguenti a quelli in cui Jung scrisse queste frasi, mi pare evidente quanto fossero tristemente veggenti le sue parole. Lo spirito parla il linguaggio dei simboli, quindi è fondamentale nutrire la dimensione simbolica nell'essere umano, dando spazio ai simboli perduti e alla creazione di nuove forme in cui essi si possano esprimere.
1.2 L'anima
Strettamente collegato al concetto di spirito, è quello di anima, termine di origine latina che ha la stessa radice del greco ánemos (vento) e lo stesso senso di spiritus (aria, soffio, respiro). Convenzionalmente l'anima rappresenta il principio dell'attività cosciente dell'uomo e, più in generale, il principio della vita di ogni creatura.
In apparenza potremmo quindi considerare lo spirito e l'anima come sinonimi esprimenti concetti identici e spesso infatti, è proprio così, ma sono necessarie alcune puntualizzazioni.
La concezione dell'anima come principio distinto dal corpo e ad esso sopravvivente è propria di molte dottrine religiose antiche, quali l'orfismo, le religioni babilonese, egiziana e iranica; di alcune religioni orientali e della quasi totalità dei culti religiosi mondiali.
Sia per i greci dei tempi omerici, sia per gli antichi ebrei e anche negli scritti del Nuovo Testamento non esiste la contrapposizione tra corpo e anima; la concezione dualistica dell'uomo compare per la prima volta in modo netto in Platone, che intende l'anima come un principio di natura diversa dai corpi, affine al mondo delle idee, preesistente al corpo e immortale.
Aristotele invece considerò l'anima come forma del corpo, quindi come il principio formatore e specificatore del corpo, al quale genera la vita. Egli ammetteva un'anima in ogni organismo vivente distinguendo un'anima vegetativa, principio della crescita e della produzione, presente nei vegetali; un'anima sensitiva, principio del movimento e della sensazione, presente negli animali; un'animarazionale, principio dell'attività dell'intelletto, propria dell'uomo.
Gli stoici considerarono l'anima di ogni essere umano come una particella della grande Ragione, oLogos, che pervade e vivifica il mondo, e, sulle loro tracce, i neoplatonici sostennero l'unione mistica dell'anima con l'Uno assoluto, ossia con Dio.
La religione cristiana, pur con notevoli variazioni a seconda che si appoggiasse alla filosofia di sant'Agostino o a quella di Aristotele e di san Tommaso, considerò l'anima come il principio spirituale messo da Dio nel corpo, formatosi per leggi naturali, perché realizzi in esso la sua esistenza terrena. Per i cristiani questo principio è immortale nell'uomo, mentre è mortale negli altri viventi. Nel cristianesimo però, l'anima non è del tutto indipendente dal corpo, la personalità umana, infatti, è data dall'unione di entrambe le dimensioni: di qui la necessità della 'resurrezione della carne' affinché ogni individuo risulti completo nell'eternità.
Secondo le principali dottrine spiritiste e occultiste, l'anima è il principio informatore del corpo fisico e degli altri tre corpi, sempre più sottili, presenti nell'uomo: il corpo eterico, con la funzione di strutturare dinamicamente il corpo fisico secondo un modo intelligente, ma non personalizzato; il corpo astrale, oanimico, sede e motore dei desideri, dei sentimenti e delle emozioni; il corpo mentale, sede e attivatore delle operazioni intellettive più elevate, ma ancora al disotto della pura percezione dello spirito.
Questi corpi, dopo la morte del corpo fisico, si dissolvono via, via, liberando l'anima da ogni peso materiale e lasciandola come pura forma. Ma proprio perché è ancora forma, l'anima rimane limitata dai suoi confini e rappresenta quindi un'entità corporea che racchiude in sé un principio spirituale superiore e informale; questo principio è il puro spirito, il 'soffio divino', l'emanazione dell'assoluto.
La forma-anima è immortale, essa rimane per l'eternità unita allo spirito come sua espressione formale e non potrebbe essere pensata indipendente da esso.
Secondo altre scuole, l'anima sarebbe anch'essa materiale e rappresenterebbe il grado più sottile della materia, che è il supporto di ogni forma, e sarebbe destinata a dissolversi per lasciare in completa libertà il puro spirito. Secondo altri ancora, l'anima rappresenterebbe il principio direttivo del corpo e rimarrebbe in parte legata ad esso per poi dissolversi prima di una nuova incarnazione.
In tutte queste ipotesi, l'anima individuale essendo costituita e plasmata dallo spirito ne rappresenta il prodotto, l'espressione e la diretta manifestazione; ma è anche il ricettacolo dello spirito, la parte attraverso cui l'individuo può entrare in contatto con la totalità.
Potremmo quindi considerare l'anima come l'individualizzazione dello spirito nel singolo. Possiamo rappresentarci lo spirito come un liquido; una goccia di questo liquido è versata in una forma che è il suo contenitore materiale: un minerale, un vegetale, un animale, un essere umano, un pianeta, una stella. L'anima è la goccia di spirito contenuta in un essere vivente, come acqua in un bicchiere ne assume perfettamente la forma.
Un concetto interessante è quello di Anima del Mondo che rappresenta, nel pensiero platonico, il principio intelligente che vivifica l'universo e lo organizza verso i suoi fini, così come l'anima umana organizza il corpo ed è la sorgente dei suoi movimenti.
L'universo diviene un essere vivente e intelligente, la sua anima pervade ogni cosa, è a contatto con le anime individuali che, attraverso ad essa, comunicano tra loro e formano un'unione indissolubile.
Da questo concetto nasce l'idea che le cose possano avere influssi reciproci tra di loro: l'ordine degli astri sui destini umani, le virtù curative delle erbe sui corpi malati, i poteri dei minerali sui viventi in genere.
Questa concezione di Platone fu ripresa dagli stoici, dai neoplatonici, dal platonismo rinascimentale e da Giordano Bruno; nel medioevo e nel Rinascimento fu alla base dell'astrologia e dell'alchimia e ne rimangono evidenti echi nell'idealismo moderno.
II
Meditazione e Misticismo
2.1 La meditazione
La maggior parte delle persone, quando pensa alla parola meditazione, pensa ad un allontanamento, se non addirittura una fuga, dalle attività quotidiane, dal lavoro, dalla vita sessuale, dalle relazioni con gli altri. Si immagina un individuo seduto a gambe incrociate nella posizione yogica del Loto, magari rinchiuso in un'angusta cella di monastero, nelle profondità di una grotta o sulla vetta di una montagna; perso in qualche sogno mistico oppure in un non ben definito stato di trance.
Molte persone si avvicinano alla meditazione, allo yoga o ad altre pratiche spirituali, con la speranza di conquistare poteri mentali o ascetici, capacità di veggenza, divinazione e guarigione, che gli altri non posseggono. Questo, altro non è che un desiderio di onnipotenza prodotto dall'egocentrismo, dall'importanza personale, dall'egoismo, dall'avidità, dall'insicurezza, dal bisogno di controllo, dalla paura e dalla sete di potere.
La parola meditazione non traduce correttamente il termine originario bhavana[6] che significa cultura o sviluppo, intesi come sapienza e crescita mentale. Quindi la meditazione incrementa un'educazione della mente che si fonda sull'eliminazione di odio, rabbia, rancore, malevolenza, pigrizia, dubbi, preoccupazioni, agitazione; e l'aumento di attenzione, intelligenza, capacità di concentrazione, volontà, energia, capacità di analisi, lucidità, fiducia, gioia, calma.
Il fine ultimo della meditazione è il raggiungimento della più alta consapevolezza che porta a vedere le cose come sono nella loro realtà ultima e che ottiene la Verità Assoluta e la totale liberazione.
Essendo la meditazione una pratica che trae origine dalle religioni e filosofie orientali, è necessario, a questo punto, analizzare brevemente le principali.
Nell'Induismo l'anima è destinata a seguire il ciclo continuo delle rinascite, detto Samsara, attraverso il quale l'individuo entra a far parte della natura vivente.
Quando l'anima si diparte dal corpo al momento della morte, sosta per tre epoche prima di trasmigrare nel corpo di un altro essere; la forma della rinascita dipenderà, secondo la legge del karma, dalle qualità etiche delle azioni compiute in passato. Nell'Induismo quindi l'ordinamento del mondo è fondato su un principio etico: il karma o legge di causalità. Karma significa letteralmente azione, ma nella speculazione indiana ha assunto il senso di “conseguenza ineluttabile dell'azione”, cioè di rinascita dell'anima in condizioni di vita commisurate alla qualità delle scelte, dei comportamenti e degli atti, che si sono compiuti nella vita precedente. Ogni gesto, anche il più insignificante, avrà dunque le sue conseguenze nelle vite e rinascite future.
Il karma è senza inizio e senza fine; l'obiettivo di ogni essere è di liberarsi dal ciclo delle rinascite conquistando, attraverso la totale consapevolezza, la libertà assoluta. I metodi per raggiungere la salvezza, intesa come liberazione, sono diversi e legati alla visione del mondo di ogni scuola e corrente.
Tra le vie di liberazione che l'India ha proposto al mondo, forse la più conosciuta è quella dello yoga. In Occidente lo yoga spesso è considerato soltanto una ginnastica, in realtà si tratta di uno dei sei metodi filosofici ortodossi dell'India antica e si rivolge a vari livelli dell'esperienza umana. Le pratiche salvificheyoga, termine che significa “strada”, “sentiero”, sono diverse tra loro, ma non si escludono comunque l'una con l'altra e sono spesso complementari:
1. Tantra yoga, è la via dei riti magici;
2. Yoga marga, è la via degli esercizi fisici e spirituali;
3. Karma yoga, è la via delle opere;
4. Jnana yoga, è la via della conoscenza;
5. Bhakti yoga, è la via della devozione.
Le pratiche più conosciute nel mondo occidentale riguardano l'utilizzo delle asana (posizioni) e delpranayama (respirazione), in conseguenza di questo lo yoga è spesso considerato soprattutto una disciplina psicosomatica. Se lo yoga può avere conseguenze benefiche per la vita fisica e risultati terapeutici per quella psichica, se può condurre all'acquisizione e allo sviluppo di facoltà straordinarie, esso resta, essenzialmente, orientato in direzione mistica, poiché deve far giungere lo yogin (il praticante) all'unione con l'Assoluto, teisticamente o non teisticamente concepito, a seconda delle diverse scuole.
Nell'Induismo, il fine comune di tutti i cammini di salvezza è la moksa cioè la liberazione, intesa come distacco dell'atman, che identifica il Sé o anima individuale, dal corpo e dal mondo. Quello che noi consideriamo abitualmente realtà e che, soprattutto in Occidente, percepiamo come tangibile e oggettiva, è definita, nel pensiero orientale, maya ossia illusione. Per liberare l'atman e raggiungere l'unione con il brahman, che rappresenta l'assoluto, l'anima del mondo, è necessario vincere maya, distaccarsi da tutte le illusioni e dagli aggrappamenti. Il brahman è il superamento ultimo di tutte le dualità: bene e male, dei e uomini, animato e inanimato, maschio e femmina; esso è considerato in senso teista nella personificazione in un dio, in senso filosofico come spirito del mondo, in senso ateista come materia primordiale.
La migrazione delle anime individuali è intesa dalle diverse scuole o come un ideale avvicinamento albrahman, oppure come una vera e propria trasmigrazione. La liberazione consiste nella perdita dell'individualità illusoria dell'atman che si ricongiunge all'Assoluto.
Le varie dottrine (Vishnuiti, Shivaiti, Shaktaiti) utilizzano descrizioni differenti di questo processo e usano anche termini diversi per indicare l'anima individuale salvata; tutti si riferiscono comunque a un Io che ha perso le caratteristiche attive e consapevoli: esso è inconsapevole, è “La goccia di rugiada che si dissolve nel mare”.
Lo stato di inconsapevolezza è fondamentale perché la causa prima del samsara è infatti proprio l'illusione che l'anima individuale, agisca, senta e pensi, mentre la liberazione, implica il completo superamento di tutti i processi psicofisici e lo smascheramento del mondo della maya, ossia l'illusione generata dalla realtà materiale. La liberazione è un'esperienza di per sé incomunicabile, perché la parola è legata e vincolata a relazioni egoiche estranee a quella dimensione. Il liberato in vita continua a risiedere nel mondo, ma il suo atman si è ricongiunto per sempre al brahman. Il liberato in vita è il santo che è sfuggito al ciclo delle rinascite e che, dopo la morte, si congiungerà definitivamente albrahman.
Il Buddhismo, dottrina elaborata dagli insegnamenti di Siddharta Gaitama detto il Buddha (565 ca - 486 ca a.C.), riprende i concetti di samsara e karma, ma non asserisce una trasmigrazione delle anime di tipo induista, bensì la rinascita di un principio individuale instabile, transitorio e sempre mutevole, legato alla legge del karma e composto da diversi dharma (elementi). Questi elementi sono riuniti a formare cinque skandha (aggregati):
1. Forma e materia
2. Sensazione
3. Idee
4. Impressioni ed emozioni
5. Coscienza
Quando un individuo muore o cessa il mondo da lui percepito, si dissolvono i dharma che compongono i cinque skandha, che si ricomporranno nuovamente al momento della rinascita. Ma poiché gli skandhacompongono sia l'Io fenomenico, sia il mondo dell'Io percepito, viene in definitiva negato il concetto di individualità e di “Io” o anima come entità eterna e assoluta.
Il Buddha Siddharta non ha mai risposto alla domanda sull'esistenza di Dio, non considerandola fondamentale ai fini della salvezza, questo fatto rende il Buddhismo una religione particolare, perché non teista, ma fondata su un'etica di comportamento volta alla ricerca dell'Assoluta Consapevolezza.
Nel Buddhismo esistono tre grandi correnti principali: Hinayana, Mahayana, Vajrayana.
Il Buddhismo Hinayana (Piccolo Veicolo) è diffuso principalmente nell'Asia meridionale ed è legato fin dalle origini all'ordine monastico e consente soltanto ai monaci di raggiungere la consapevolezza totale e quindi la cessazione delle rinascite.
Il Buddhismo Mahayana (Grande Veicolo) è diffuso soprattutto nel nord dell'Asia e consente sia ai monaci che ai laici di arrivare alla liberazione. Il Buddhismo Mahayana ha anche un paradiso vero e proprio, luogo di beatitudine suprema, la “terra pura” legata a molti culti popolari in Cina e in Giappone. La via che conduce alla rimozione del dolore è detta “il nobile ottuplice sentiero”, attraverso questo percorso si eliminano il desiderio, la sete di essere e avere, e di conseguenza si interrompe la ruota delle reincarnazioni, imboccando la “via di mezzo” tra ricerca del piacere e mortificazione della carne. Mentre la via della salvezza assoluta è unica, cioè “il nobile ottuplice sentiero”, le vie che conducono alla beatitudine celeste sono infinite, come infiniti sono, secondo il Mahayana, i tipi di salvezza. I devoti del Buddha Amida, ad esempio, devono solo invocarlo con fede profonda per guadagnarsi il suo paradiso.
Il Buddhismo Vajrayana (veicolo di diamante), detto anche Tantrayana (veicolo del libro), si sviluppò in epoca posteriore al sec. VII d.C. ed ebbe il suo primo centro di diffusione nella zona del Bengala, ma si sviluppò ancor più al di fuori dell'India: in Cina, nel Tibet, a Sumatra, in Birmania e in Giappone. A differenza delle due precedenti scuole, il Buddhismo Tantrico fu esoterico, cioè riservato a poche cerchie di iniziati, guidati da maestri spirituali. La pratica prevedeva il culto del Buddha, concepito come colui che si manifesta nei vari Buddha, nei bodhisattva, nelle divinità e nelle forze del cosmo.
Nel Vajrayana, vi sono figure simboliche e divinità femminili, attraverso le quali si inserì anche nel Buddhismo la mistica erotica per raggiungere la perfezione.
In tutte le scuole buddhiste la salvezza coincide con l'interruzione del ciclo del karma e il raggiungimento del nirvana (estinzione).
Questo termine designa la condizione di salvezza suprema nelle tre grandi religioni indiane: Induismo, Gianismo e Buddhismo. Ma è soprattutto nel Buddhismo che la nozione di nirvana è sviluppata e assume una posizione centrale. Il nirvana è una delle quattro nobili verità[7] insegnate dal Buddha, in relazione alla salvezza; esso è anzi questa stessa salvezza che consiste nella cessazione del dolore. Se infatti si elimina la “sete” o desiderio, causa del dolore, non vi saranno più rinascite nel ciclo della trasmigrazione e non vi sarà più dolore. Il nirvana è considerato, nella maggior parte dei casi, come una sfera o uno stato indefinibile, anche se, nel corso dei secoli, vi sono stati molti tentativi di descriverlo e sono state fatte molte speculazioni filosofiche su di esso. Secondo lo Hinayana il nirvana è l'antitesi delsamsara, ed è condizione che sfugge ad ogni definizione. Se alcune scuole del Buddihsmo hinayanagiunsero a concepire il nirvana come totale annientamento, il Buddhismo mahayana ha accentuato sempre più la positività del nirvana e la sua mistica essenza. Anche quando si parla di “vacuità” in relazione al nirvana, si intende esclusivamente la rinuncia ad ogni desiderio di conoscenza razionalizzata di esso. In questa scuola, samsara e nirvana, non sono che due aspetti di una stessa realtà: “l'essenza del vuoto”.
Nel pensiero mahayanico il nirvana era identificato con l'essenza stessa dell'uomo e del cosmo; tale nucleo era designato con termini astratti quali: tathata (l'esser così) e, in seguito, anche con buddhatva(buddhità).
Lo stato di buddhità sarebbe latente in tutti gli esseri, celato dalle impurità e la meditazione è una delle vie regie al suo raggiungimento attraverso una graduale purificazione, ciò implica il non riconoscersi nell'esistenza individuale ed effimera.
Attraverso la pratica si può raggiungere lo stato del nirvana in vita, prima di incontrare quello totale che coincide con la morte fisica.
Secondo il Buddhismo esistono due forme di meditazione. Una è lo sviluppo della concentrazione mentale (samatha osamadhi), che si ottiene fissando la mente su un unico punto. Attraverso vari metodi descritti nei testi si possono raggiungere i più alti stati mistici come “la Sfera del Niente” o “la Sfera della né Percezione né Non-Percezione”. Tutti questi stati contemplativi sono però ancora proiezioni mentali, non hanno quindi nulla a che fare con la Realtà Unica del nirvana. Questa forma di meditazione è antichissima ed esisteva prima della nascita del Buddha, egli stesso raggiunse attraverso queste pratiche livelli altissimi di consapevolezza, ma non fu soddisfatto dei suoi risultati, perché, a suo parere, non portavano alla totale liberazione. Il Buddha scoprì un'altra forma di meditazione che è definita vipassana, “visione” della natura delle cose, che conduce alla completa liberazione della mente e alla conquista del nirvana.
I modi di “meditare” della vipassana non sono separati dalla vita, non la evitano, anzi, vi sono costantemente collegati.
La meditazione è divisa in quattro sezioni:
• il corpo
• le sensazioni
• la mente
• i soggetti morali e intellettuali.
Qualunque sia la forma di meditazione scelta, ciò che conta sono l'attenzione, la presa di coscienza, l'osservazione.
Una delle forme di meditazione più conosciuta è quella legata all'attenzione al respiro ed è l'unica per cui i testi prescrivano una precisa posizione, cioè il sedersi a gambe incrociate tenendo il corpo dritto e l'attenzione vigile; in tutti gli altri casi si può meditare stando seduti, in piedi, camminando o stando sdraiati.
Un'altra forma di meditazione consigliata dal Buddhismo è di essere attenti a qualsiasi cosa si faccia, fisicamente o verbalmente, durante il lavoro, nella vita privata, praticando uno sport o ballando in discoteca. Scrive Walpola Rahula, monaco buddhista e docente in varie università dell'Occidente e dell'Oriente: “Sia quando camminate, state in piedi, sedete, giacete o dormite, sia quando distendete o piegate gli arti, o quando vi guardate intorno, o quando indossate gli abiti, sia quando parlate che quando state zitti, sia quando mangiate o bevete, persino quando rispondete ai richiami della natura, in queste ed in altre attività dovreste essere pienamente attenti e consapevoli dell'atto che state compiendo in quel momento. Ciò vuol dire che dovreste vivere nel momento presente, nell'azione presente. Questo non vuol dire che non dovreste pensare per nulla al passato o al futuro. Al contrario, li pensate in relazione al momento presente, alla presente azione, quando e dove è pertinente.
Le persone generalmente non vivono nelle loro azioni, nel presente. Vivono nel passato o nel futuro. Anche se sembra che stiano facendo qualcosa qui, in questo momento, sono altrove, nei loro pensieri, nei loro problemi immaginari e nelle loro preoccupazioni, perdute nel ricordo del passato o nei desideri e aspettative per il futuro. Quindi non vivono in quello che fanno e in quel momento, non ne godono. Così sono infelici e scontenti del presente, del loro lavoro e sono naturalmente incapaci di dedicarsi interamente a ciò che sembrano fare”.[8]
Consapevolezza dell'istante non significa pensare: “Sto facendo questo, sto pensando quello, sto respirando...” e così via; questo metodo genererebbe una sollecitazione all'ego cosciente e non si vivrebbe l'atto, ma il solito “io sono”. Nella meditazione è fondamentale dimenticarsi di se stessi e identificarsi con quello che si sta facendo, tutte le grandi opere artistiche o spirituali sono state create nel momento in cui l'autore è riuscito a fondersi con l'opera stessa dimenticando il proprio ego.
La meditazione sulle emozioni o le sensazioni piacevoli, spiacevoli o neutre, si basa sull'osservazione distaccata della sensazione stessa. Per prima cosa è importante non essere aggrappati all'emozione o alla percezione, quindi si inizia ad osservarla e ad esaminare come sorge, qual'è la sua causa, come sparisce, qual'è il suo significato. Ci si comporta come scienziati che conducono un esperimento ed osservano un oggetto dall'esterno, senza coinvolgimento emotivo e soggettivo: non è una “nostra” sensazione, ma “una sensazione”.
La meditazione riguardo la propria mente è bene che sia libera da atteggiamenti critici, il modello è sempre quello dello scienziato e non quello del giudice; divenire imparziali di fronte ai propri pensieri, alle istanze profonde, ai sentimenti, permette di essere distaccati e liberi e quindi di vedere le cose come realmente sono.
Il pensiero buddhista originario generò, come abbiamo visto, numerose scuole, tra esse, una delle più famose in Occidente è sicuramente la scuola Zen.
Lo Zen si sviluppò in Giappone nel 1215 per opera del monaco Eisai, che aveva appreso in Cina il Buddhismo della scuola ch'an, detta lin-chi, che in Giappone prese il nome di Rinzai. Un altro monaco, Dogen, si recò anch'egli in Cina dove studiò il Buddhismo ts'aot'ung e nel 1227 fondò in Giappone la scuola Soto. Entrambe le scuole si ispirano al mahayana, ma senza sottolinearne l'aspetto metafisico, esse considerarono soprattutto l'etica del Grande Veicolo e la contemplazione “senza oggetto”, come strumenti per ottenere l'illuminazione; in giapponese, lo stato perfetto che permette di realizzarsi completamente, è detto satori. Lo stato d’illuminazione non coincide con una ricerca del sé, o in una forma di isolamento, ma nella contemplazione della realtà in modo che nulla e nessuno si opponga ad altro. Il satori è una conoscenza sperimentale del mondo e della sua unità, ogni elemento visibile assume un'importanza assoluta: dal filo d'erba alla goccia di rugiada, dalla pietra all'insetto, fino a giungere alla totalità delle creature dell'universo. Un maestro zen disse: “prendete anche un solo granello di polvere e in esso si manifesterà il mondo nella sua integrità”.
La scuola Soto è molto conosciuta in occidente attraverso la pratica dello zazen (meditazione stando seduti), che utilizza quasi esclusivamente la meditazione nella posizione yogica del Loto, seguendo il ritmo del respiro, senza idee né pensieri.
Dice T. Hirai: “L'espressione 'meditazione senza pensiero' indica uno stato di meditazione profonda in cui la persona che pensa e l'oggetto del pensiero si fondono e in cui lo spirito è completamente unificato.
Tale stato è simile a quello di una mente tranquilla come una brillante superficie di acqua non perturbata o un lucido specchio in cui la possibilità di cambiamento è sempre presente”.[9]
L'obiettivo è ottenere il vuoto di sé e accogliere l'illuminazione che giungerà spontaneamente quando, dopo lunghi esercizi, lo spirito si sarà dilatato e sarà giunto a uno stato di coscienza più profondo di quello ordinario.
La scuola Rinzai, a differenza di quella Soto, oltre allo zazen, utilizza, per la meditazione, il metodo deikoan. I koan, sono enigmi, problemi insolubili, paradossi logici o piuttosto “sfide interiori”, che il maestro propone al discepolo per indurlo a scoprire l'inutilità di ogni sforzo razionale per cogliere la realtà ultima. Accettare il koan senza tentare di comprenderlo razionalmente o spiegarlo, porterà l'allievo ad uno stato di vuoto della coscienza che condurrà all'illuminazione.
Uno dei koan più famosi è quello proposto dal maestro Mokuray all'allievo Toyo: “Tu puoi sentire il suono di due mani quando battono l'una contro l'altra. Ora mostrami il suono di una sola mano”.[10]
Sia lo zazen, che l'utilizzo dei koan, oppure il tiro con l'arco, la pittura o l'arte di disporre i fiori, hanno l'obiettivo di penetrare nell'essenza delle cose attraverso la contemplazione del vuoto, l'ascolto passivo e l'identificazione totale con l'azione che si compie annullando completamente l'ego cosciente. La via dello Zen è basata essenzialmente su questo insegnamento, non è necessario far nulla di particolare per sviluppare l'attenzione, ma essere attenti a ciò che si sta facendo.
Una storia zen esemplifica bene questo concetto:
“Dove posso cercare l'illuminazione?”.
“Qui”.
“E quando accadrà?”.
“Sta accadendo proprio ora”.
“Allora perché non la percepisco?”.
“Perché non guardi”.
“Per cercare cosa?”.
“Niente. Guarda e basta”.
“Che cosa?”.
“Qualunque cosa su cui si posano i tuoi occhi”.
“Devo guardare in modo speciale?”.
“No. Il modo solito va bene”.
“Ma non guardo sempre nel solito modo?”.
“No”.
“E perché mai?”.
“Perché per guardare devi essere qui. E tu il più delle volte sei altrove".[11]
Prima di lasciare l'Oriente, è necessario compiere una visita in Cina e considerare il pensiero taoista.
Il Taoismo trae origine dagli insegnamenti di uno dei grandi filosofi cinesi dell'antichità: Lao-Tzu, che la tradizione vuole contemporaneo di Confucio (VI-V sec. a.C.). Il Tao Teh-ching, in cui sono raccolti i pensieri e le massime di Lao-Tzu, costituisce, insieme agli scritti dei due maggiori discepoli di Lao-Tzu, Chuang-tzu e Lieh-tzu, la base del Taoismo. Il Tao Teh-ching (Il Libro della Via e della Virtù) è considerato “l'opera più bella e profonda in lingua cinese” (Needham), “uno dei più importanti testi di tutta l'antichità” (Castellani), forse uno dei testi cinesi antichi più tradotti in Occidente pur essendo “intraducibile”. La lingua cinese e l'ambiguità del testo rendono le varie traduzioni talmente differenti tra loro che confrontandole sembra quasi impossibile che si riferiscano allo stesso testo.
Il punto di partenza dei pensatori taoisti non è filosofico, ma religioso-magico e si fonda su discipline (alimentari, respiratorie, igieniche) molto più antiche, già praticate dagli sciamani allo scopo di ritardare indefinitamente l'invecchiamento e di temprare corpo, mente e spirito al fine di realizzare “viaggi” in stato di estasi.
La filosofia taoista sviluppandosi su queste basi, si opponeva al rigore morale, ai riti, alle regole e all'organizzazione socio-politica derivanti dal pensiero confuciano. Il Confucianesimo infatti rappresenta l'ideologia che ha permesso e sostenuto la formazione e il perpetuarsi dello stato burocratico centralizzato, dato che, sia nella famiglia che nello stato, esso privilegia il principio gerarchico e rifugge da ogni turbamento dell'ordine costituito, che intende preservare con la pratica delle virtù.
Il Taoismo si basa su un ideale di vita autonoma, naturale, libera e gioiosa; esso considera i mali del mondo come conseguenza degli intralci, delle aggiunte superflue e deformazioni che la cultura ha imposto alla natura, indebolendo così il principio vitale.
Per una vita felice è necessario ritrovare la semplicità delle origini conformandosi ai ritmi dell'universo, diventando come il Grande Tutto: il Tao. Il termine significa via, cammino e, per estensione, corso delle cose.
Il Tao rappresenta contemporaneamente l'agire e il non agire, il persistere e il mutare.
In apparenza la natura è caratterizzata dal non-agire, dal non sforzo, dal non-fare, è necessario imitarla, ritrovare la perfetta semplicità dello stato primordiale, incontrare il Grande Tutto che è silenzio, quiete e perfetta indifferenza.
Il principio cosmico, che dà forma e sostanza al persistere e al mutare delle cose, si identifica con il Tao, in esso agisce una forza vitale, il teh, che si esplica pienamente in chi, identificandosi il più possibile con il Tao, adotta un comportamento inattivo, passivo, senza sforzo e senza scopo.
L'elemento dinamico del Tao è causato dall'alternanza di due forze complementari e opposte: lo yin e loyang, la cui azione combinata presiede ai mutamenti di tutto l'universo.
Lo yin contiene il femminile, il tenebroso, l'umido, il negativo, il ricettivo; lo yang il maschile, il luminoso, il secco, il positivo, l'attivo.
Tutto nell'universo è dominato da quest'alternanza polare; nulla sfugge all'ordine ciclico costituito dall'avvicendamento delle due forze opposte e complementari: neppure il tempo.
Le speculazioni su yin e yang, sono state sviluppate soprattutto nel Taoismo, ma anche il Confucianesimo e tutte le scuole di pensiero cinesi, utilizzarono il concetto di dualità con variazioni di contenuto a seconda delle epoche e delle tendenze.
Ad esempio nell'I King, il “Libro dei Mutamenti”, che è ad un tempo testo sacro e libro di divinazione, loyin è rappresentato dalla linea spezzata e lo yang dalla linea intera, che sono combinate in otto simboli fondamentali ognuno costituito da tre linee sovrapposte. Tre righe intere rappresentano il Cielo, principio creativo e paterno; tre spezzate rappresentano la Terra, il principio ricettivo e materno; una spezzata e due intere oppure una intera e due spezzate combinate in sei possibilità, rappresentano tre figli e tre figlie. Questi otto simboli (fig. 1), raddoppiati e variamente combinati fra loro, danno un totale di 64 simboli o esagrammi, ognuno formato da sei linee sovrapposte, intere, spezzate o frammiste.
Figura 1
La concezione che sta alla base dell'I King, è legata alla rappresentazione di un universo in continuo divenire, retto da un incessante succedersi di mutamenti diretti non da cause meccaniche, ma da un intimo principio spirituale. Gli aspetti della realtà sono forme simboliche di questo principio e sono legati da sequenze analogiche che seguono una volontà universale, centro dell'essere. I perenni mutamenti sono rappresentati dal continuo interagire e rimescolarsi delle linee spezzate e intere, quindi dalla costante interazione di yin e yang.
Lo scopo pratico dell'opera è di permettere a chi la consulta di stabilire la sua condizione attuale nella complessa armonia del tutto adeguandosi saggiamente e consapevolmente al suo futuro, grazie all'aiuto d’agenti spirituali detti scienn, che affiancano sempre il consultante.
L'I King, ha in comune con il Taoismo, un concetto fondamentale: l'unica cosa immutabile è la legge del mutamento. Una concezione dinamica del mondo, centrata sul divenire e non sull'essere ha sempre creato problemi; soprattutto per la difficoltà di esprimerla con parole e schemi razionali e per l'estraneità con una cultura, come la nostra, legata all'ego e al “qui e ora”.
Probabilmente per questi motivi, il Taoismo non ebbe quasi mai il ruolo di dottrina ufficiale e per duemila anni lo stato cinese si riferì al Confucianesimo che proponeva un modello volto a garantire una stabilità fondata sul concetto di conservazione, attraverso un minuzioso e imprescindibile insieme di regole di comportamento e rituali, la cui funzione era di impedire che avvenissero alterazioni nella corrispondenza tra cosmo e individuo, tra natura e morale, tra classi sociali e strutture di potere.
2.2 Il misticismo
Da quanto scritto sino ad ora, appare chiaro che il principale obiettivo della meditazione è di raggiungere la liberazione personale attraverso un'unione mistica con l'assoluto. Tale unione può avvenire attraverso la liberazione dell'anima individuale dai legami del corpo oppure dalla macchina del karma; con l'estinzione dell'ego illusorio e la conquista del nirvana; con la riunificazione degli opposti e la riconquista dell'unità originaria.
Louis-Claude de Saint-Martin (1743-1803) ha scritto: “Tutti i mistici parlano la stessa lingua poiché vengono dalla stessa terra”,[12] direi però che hanno descritto questa terra utilizzando differenti prospettive ed esprimendosi in vari linguaggi costruiti sui loro modelli culturali, sociali e religiosi.
Che cos'è il misticismo e chi è il mistico?
Il termine misticismo deriva probabilmente dal greco myein che significa “chiudere gli occhi” e quindi rimanere chiusi nel proprio intimo. Con misticismo s’intende generalmente indicare quelle correnti filosofico-religiose che portano a Dio e al divino mediante l'illuminazione interna, attraverso la quale si sperimenta l'unione spirituale con l'assoluto.
Nella tradizione cristiana la mistica si riferisce allo stato d’intima unione con Dio e alla contemplazione della divinità. Potremmo definirlo un elevato stato di vita spirituale, nel quale l'anima, purificata dai peccati e da tutte le imperfezioni della carne, incontra Dio. Le caratteristiche della vita mistica sono:
• la passività, perché gli stati mistici sono prodotti da uno speciale intervento dello Spirito Santo, che attraverso i suoi doni s’impadronisce dell'anima e la conduce ad uno stato di beata passività;
• la semplicità, per cui l'agire del mistico è immediato, intuitivo, spontaneo, istintivo: quasi irrazionale.
In Occidente incontriamo orientamenti mistici nel pitagorismo (V-IV sec a.C.), in cui lo studio dei numeri diventava esperienza sublime addentrandosi nella simbologia di un'armonia universale razionalmente incomunicabile.
Plotino, nel III secolo dopo Cristo, fondò su basi mistiche la scuola neoplatonica, affermando l'inconoscibilità razionale della divinità; il filosofo sosteneva che di Dio si può dire soltanto che è Uno e quest’unità assoluta può essere avvicinata soltanto per pura intuizione. È alla fine del V secolo che, in alcuni scritti attribuiti a Dionigi L'Aeropagita in cui è proposta una teoria religiosa che concepisce Dio come assolutamente di là dalla ragione e della conoscenza razionale, appare per la prima volta il termine misticismo. Nel medioevo il Maestro Johannes Eckhart (1260-1327), fondatore del misticismo speculativo tedesco spiegava che, nell'atto mistico, “lo spirito non rimane più una creatura giacché egli stesso è la beatitudine, è unità di essenza e di sostanza con la divinità, a un tempo beatitudine sua e di tutte le creature”.[13]
La fondamentale differenza tra religioni orientali e occidentali è data dalla differente importanza che è attribuita all'individualità. Scriveva D.T. Suzuky: “Ogni volta che vedo l'immagine del Cristo crocifisso, non posso fare a meno di pensare alla differenza tra buddismo e cristianesimo. Questa differenza è simbolica della separazione tra Oriente e Occidente a livello psicologico. L'ego individuale si afferma con la forza in Occidente. In Oriente non c'è ego, l'ego è non-esistente e pertanto non c'è nessun ego da crocifiggere”.[14]
Secondo Gilbert, una buona definizione di misticismo è quella data da Evelyn Underhill: “Il misticismo è l'arte dell'unione con la Realtà. Il Mistico è una persona che ha conseguito questa unione in maggiore o minore grado; o che aspira ad essa e crede in tale conseguimento”.[15] Ci troviamo di fronte a un'esperienza inesprimibile attraverso il pensiero razionale, quindi la parola diviene strumento inadeguato; per descrivere gli stati mistici sono necessarie metafore, similitudini, paradossi.
Tutti gli stati di coscienza differenti da quello ordinario sono difficilmente esprimibili a parole, c'è però una sostanziale differenza di significato tra queste esperienze centrate in ogni caso sull'ego e l'autentico stato mistico che prevede l'unione intima con l'assoluto.
Se i mistici provengono “tutti dalla stessa terra”, i concetti e le descrizioni di Dio o della trascendenza variano da cultura a cultura e le varie dottrine sono profondamente diverse tra loro. Per i cristiani, ad esempio, l'anima al momento della morte si ricongiunge al creatore nel paradiso, oppure deve purificarsi nel purgatorio o, nella peggiore delle ipotesi, precipita nell'orrore dell'inferno. Per gli induisti l'anima è prigioniera del Samsara e deve liberarsi dal karma; mentre per i buddhisti non esiste l'anima individuale. L'Islam nella sua teologia ortodossa, cioè quella sunnita, fissata, dopo lunghi contrasti, intorno al 900, sostiene da un lato che il destino degli uomini è determinato da Allah nella sua universale e illimitata potenza, senza tenere conto delle loro opere, ma dall'altro afferma che, in occasione del Giudizio Universale, gli uomini saranno puniti con l'inferno o premiati col paradiso a seconda delle loro azioni. Tra le due posizioni teologiche estreme - gli Jabriti, sostengono la completa mancanza di libertà dell'uomo, mentre i Kadariti affermano l'esistenza del libero arbitrio - si trova la dottrina ortodossa degli Ashariti, che ammette sia l'intervento divino, sia la responsabilità umana.
Durante il Giudizio Universale, le buone e cattive azioni degli uomini, che sono state registrate su un libro, saranno pesate su di una bilancia. Gli uomini dovranno poi attraversare il “golfo dell'inferno” su un ponte più sottile di un capello e più affilato di una spada, mentre sotto di loro gli inferi spalancheranno le fauci per inghiottire coloro che cadranno e precipitarli nelle loro sei bolge.
Gli infedeli diverranno schiavi dell'inferno e bruceranno tra le sue fiamme; i credenti potranno invece scampare al baratro e giungere in paradiso. Il paradiso islamico, dove scorrono ruscelli d'acqua, latte, vino e miele, è luogo di piaceri sensuali, nel quale i Mussulmani devoti avranno come compagne delle fanciulle incantevoli, eternamente belle, le huri (bianche). Nel paradiso, però, oltre alla felicità dei sensi, vi è anche il godimento della visione di Allah (che è negata dai Mutaziliti). Tutti coloro che muoiono prima del Giudizio Finale sono destinati ad attenderlo, giacendo privi di coscienza nelle loro tombe. Solo quanti perdono la vita per l'Islam nella “guerra santa” vanno in paradiso immediatamente dopo la morte.
Queste affermazioni non possono essere tutte vere, le une escludono le altre e non c'è modo, in termini razionali e scientifici di giungere ad una conclusione oggettiva. Nei secoli questa difficoltà ha scatenato guerre di religione e discussioni teologiche interminabili, in cui ogni contendente sosteneva di essere “l'unico depositario della verità” e oggi le cose non procedono in modo differente.
Dice Gilbert: “Quando due dottrine si escludono reciprocamente, sul piano teologico e filosofico, non possono essere entrambe vere: una delle due fedi in questione sarà falsa, o entrambe”.[16]
Come si può stabilire la verità? Personalmente credo sia impossibile e ritengo che questo sia il motivo per cui il Buddha si disinteressò di Dio e si occupò esclusivamente di indicare un cammino di consapevolezza e liberazione.
Sono fermamente convinto che attraverso l'esperienza mistica sia percepito qualcosa che potremmo definire “trascendente”, una dimensione indescrivibile che gli esseri umani tentano poi di descrivere inserendola nelle situazioni culturali di cui sono figli. Infatti, mentre il teologo vuole dare consistenza razionale al divino, il mistico semplicemente lo percepisce e questa percezione ha caratteristiche simili in tutte le epoche e in tutte le religioni. Forse questo avviene semplicemente perché gli esseri umani sono tutti uguali rispetto alle percezioni sensoriali e ai processi mentali: il misticismo potrebbe essere il prodotto di una particolare area del cervello o la conseguenza dell'azione di qualche neurotrasmettitore.
A questo punto della nostra evoluzione non esistono risposte, quindi in questo lavoro assumeremo l'atteggiamento del Buddha e non tenteremo di dare forma a ciò che non ne ha, né contenuto scientifico a ciò che non è misurabile.
III
Carlos Castaneda
3.1 L'opera
Carlos Castaneda etnologo e scrittore, è stato uno dei personaggi più discussi del nostro tempo, persino il luogo e la data di nascita sono controversi: su alcuni testi sarebbe nato a Cajamarca in Perù il 25 dicembre 1925; mentre in un'intervista rilasciata a Carmina Fort lui stesso afferma di essere nato il 25 dicembre 1935 in un paesino chiamato Juquery vicino a San Paolo, in Brasile.[17] Secondo Gabriele Romagnoli sarebbe invece nato “...un meno evocativo giorno d'autunno del 1931, a San Paolo del Brasile”.[18]
Anche la sua morte, avvenuta ufficialmente il 27 aprile 1998, è avvolta nel mistero e alcuni sostengono che lo scrittore sia tuttora vivente.
Nel 1960 Castaneda, studente di antropologia, stava preparando una tesi sulle piante psicotrope (allucinogene); durante le sue ricerche incontrò don Juan Matus un vecchio Yaqui[19] che nel 1961 ammise di essere un brujo, cioè uno stregone. Lo scrittore divenne allievo di don Juan che gli rivelò, nel corso di incontri che si protrassero per un decennio, insegnamenti derivanti dall'antica tradizione Tolteca.[20]
Castaneda ha scritto undici libri: A Scuola dallo Stregone (1968), Una realtà separata (1971), Viaggio a Ixtlan (1972), L'isola del Tonal (1974), Il secondo anello del potere (1977), Il dono dell'Aquila (1981), Il fuoco dal profondo (1984), Il potere del silenzio (1988), L'arte di sognare (1993), Tensegrità (1997), Il lato attivo dell'infinito (1998, postumo).
I libri contengono il racconto dell'iniziazione dell'autore alla Via del Guerriero, un percorso che conduce alla Conoscenza attraverso gli insegnamenti di don Juan.
Dal 1968 al 1974 Castaneda conobbe un periodo di costante ascesa, sia a livello di riconoscimenti accademici, sia come successo di pubblico e di critica; negli anni successivi egli fu soggetto a continui attacchi che coincisero, nel 1978, con un intervento di vera e propria cancellazione. La cultura americana non poteva tollerare la provocazione intellettuale presente nelle opere di Castaneda, poiché intaccavano profondamente i contenuti e i valori del moderno Occidente, dando spazio e autorevolezza alla sapienza delle popolazioni native americane. Oggi molti sostengono che lo scrittore sia stato un astuto manipolatore di coscienze e che i contenuti proposti nei suoi libri siano frutto d’invenzione; altri lo considerano il profeta della nuova era e ritengono assolutamente autentiche le sue esperienze.
Tra i sostenitori di Castaneda vi sono pareri differenti sull'origine della via di conoscenza presentata dall'autore: per alcuni don Juan Matus è un personaggio reale; per altri è una figura simbolica che rappresenta la sommatoria delle informazioni e delle conoscenze degli antichi abitanti del Messico, raccolte da Castaneda e provenienti da varie fonti; altri ancora considerano il brujo come la figura immaginaria che identifica la dottrina di un gruppo esoterico; infine c'è chi ipotizza che don Juan sia stato in realtà uno psicoterapeuta (addirittura si è sussurrato Erikson) che ha condotto l'analisi dell'autore.
Non mi sento di scegliere alcun partito poiché soltanto Carlos Castaneda avrebbe potuto dirci come siano andate realmente le cose ed egli ha sempre sostenuto di aver incontrato don Juan e di aver ricevuto da lui gli insegnamenti che presenta nelle sue opere.
Ho avuto rapporti di amicizia con un gruppo di nativi americani residenti in Messico che seguono la tradizione guerriera azteca, essi sostengono che gli ammaestramenti di don Juan sono sicuramente legati alla via di conoscenza dei maestri vissuti in epoca precolombiana, anche se spesso, sono espressi attraverso contenuti simbolici ed esoterici, mediante un linguaggio comprensibile per la cultura Occidentale.
Nel presente contesto l'opera di Castaneda è presa in considerazione perché, indipendentemente dal fatto che sia frutto di reali esperienze o il prodotto della fantasia dell'autore, rappresenta uno straordinario riferimento per chi desidera seguire un percorso di crescita personale.
Per quel che riguarda il valore della sua opera riporterò quanto scrive Elemire Zolla[21]: “Quando si dipinge uno sciamano, in tutti i continenti, concordemente lo si raffigura come un corpo visto ai raggi X, con lo scheletro in evidenza, come a significare che è denudato di tutte le illusioni da cui si è ravvolti, impediti, ottenebrati.
Si osserva che dall'uomo in punto di morte la vita si congeda ripresentandosi tutta in un baleno: lo sciamano procura di ottenere in anticipo quest'esperienza liberatrice. Ma non solo dai moribondi, da tutti egli tenta di strappare ammaestramenti. Dal maniaco, che diventa così gagliardo durante le crisi, impara a imitare gli eccessi. Dall'isterica, con le sue snodature e contrazioni, si mette a scuola. Presso le fiere, dalle serpi alle tigri, egli apprende a stirarsi, ad accovacciarsi, a sibilare e ruggire. Allena la sua anima, come fosse un arto, a impersonare uomini, belve, venti, cascate, tuoni, fusioni d'acidi e alcalini, costellazioni e pianeti.
Le forze che gli altri subiscono come loro dei o spiriti o istinti che si vogliano mai chiamare egli guarda risolutamente in faccia, per convocarle o congedarle. Per arrivare a tanto usa di qualunque mezzo. Si suggestiona, se gli torna comodo. Non è detto che talvolta, per mettersi più facilmente nella condizione di padrone del fuoco, non si spalmi di pomate contro le ustioni maneggiando o calpestando le braci ardenti. Stupirne è come farsi meraviglie perché un cantante gargarizza e imposta la voce, un attore ricorre a effetti di luce, un lottatore fa delle finte, un medico suggestiona il paziente. Una pia frode è un mezzo come un altro, come il digiuno, l'astinenza, la respirazione ritmica, o come le erbe allucinanti e le bevande fermentate. Scambiare per drogato o ubriaco uno sciamano che segua una tradizione dove si ricorra anche a questi ultimi due mezzi vuol dire non comprenderlo. Questo fu palese alle generazioni successive al 1968 e credo che ciò basti a riassumere il ruolo pedagogico che ebbe l'opera... Castaneda non sta facendo discorrere a vuoto, qui anzi sta introducendo una storia nascosta che anima tutta la vicenda dei suoi romanzi oltre alla storia del Messico stesso... Va alla radice segreta del Messico indigeno, all'anima sistematicamente negativa e in rivolta, che usa l'occultamento da molto prima dell'arrivo dei bianchi”.[22]
Fu proprio lo studioso italiano a scoprire, in un codice tolteco conservato a Liverpool, le segrete corrispondenze tra i riti di don Juan e le tradizioni apparentemente perdute della civiltà precolombiana e a segnalare, nel suo saggio I letterati e lo sciamano, i collegamenti tra gli Yaqui, gli stregoni nagualisti e gli scritti di Castaneda che sostiene di rilevare un ramo del nagualismo riformato nel 1723.
Secondo Zolla però, con Il potere del silenzio l'opera dello scrittore decade: “È come se un altro essere, diverso, tenue, ignaro, tentasse di comporre un libro di Castaneda con niente che lo animi e gli detti dentro. La fascetta asserisce che le visioni di don Juan filtrate dal deserto e dalle montagne offrono un sistema etico insieme valido e trascendentale per tutti noi. Una dichiarazione che potrebbe armonizzare con qualunque testo conformista della società americana”.[23]
Condivido il giudizio di Zolla e, a mio parere, la situazione peggiora con i libri seguenti.
La tecnica che Castaneda ha proposto dal 1995, definendola Tensegrità, è associabile a molte discipline pseudo sciamaniche o pseudo mistiche, espressione del fast-food simil-spirituale che ha permeato la fine del secolo scorso e gli inizi del nuovo millennio. Tensegrità è una parola composta dall'unione dei termini “tensione” e “integrità” e rappresenta “La versione moderna dei passi magici dell'antico Messico... L'attività creata dalla contrazione e dal rilassamento dei tendini e dei muscoli del corpo è la tensione. L'integrità è invece l'atto di considerare il corpo come un'unità perfetta, completa e integra”.[24]
In un’intervista rilasciata a Benjamin Epstein alla domanda: “Che cos'è Tensegrity? È qualcosa di simile al t'ai chi o alle arti marziali messicane?”, Castaneda risponde: “Tensegrity è al di fuori dei confini politici. Il Messico è una nazione. Rivendicare origini è assurdo. Paragonare Tensegrity allo yoga o al t'ai chi è impossibile. Ha origini e fini diversi. L'origine è sciamanica, il fine è sciamanico”.[25]
Per chiarire il mio dissenso è necessario definire chi sia lo sciamano.
Il termine “sciamano” deriva, attraverso il russo, dalla parola tungusa shaman, quindi la sua origine è riferita ad un fenomeno religioso siberiano e centro-asiatico.
È diventata una consuetudine, utilizzare come sinonimi i termini sciamano, medicine-man, stregone o mago, per identificare persone che svolgano attività magico-religiose o legate a pratiche di guarigione spirituale; Mircea Eliade considera lo sciamanismo come “tecnica dell'estasi”.[26]
“Magia e maghi li si incontrano un po' dappertutto nel mondo, mentre lo sciamanismo corrisponde ad una 'specialità' magica particolare... implica il 'dominio del fuoco', il volo magico e così via. Così, benché lo sciamano sia, fra l'altro, un mago, non ogni mago può esser qualificato come sciamano. La stessa precisazione s'impone nel riguardo delle guarigioni sciamaniche: ogni medicine-man è un guaritore, ma lo sciamano utilizza una tecnica propria solo a lui. Quanto alle tecniche sciamaniche dell'estasi, esse non esauriscono tutte le varietà dell'esperienza estatica attestate dalla storia delle religioni e dall'etnologia religiosa: non si può dunque considerare un qualsiasi estatico come uno sciamano; questi è lo specialista di una transe durante la quale si ritiene che la sua anima può lasciare il corpo per intraprendere ascensioni celesti o discese infernali”.[27]
Anche il rapporto dello sciamano con gli spiriti a cui fa riferimento è particolare, egli riesce a comunicare con i morti, coi demoni, con gli spiriti della natura senza trasformarsi in loro strumento, anzi, dominandoli. Lo sciamano è un mistico, è “il grande specialista dell'anima umana: lui solo la ‘vede’, perché ne conosce la 'forma' e il destino. E ove non si tratti della sorte immediata dell'anima, ove non si abbia a che fare con la malattia (= perdita dell'anima) o con la morte, o con una sventura, o con un importante sacrificio che implica una certa esperienza estatica (viaggio mistico nel Cielo o negli Inferni), lo sciamano non è indispensabile. Una gran parte della vita religiosa si svolge senza di lui”.[28]
La figura dello sciamano è presente in varie parti del mondo e vi sono numerosi modi per diventare sciamani: vocazione spontanea (elezione o chiamata), per eredità, per decisione personale o del gruppo di riferimento, in seguito ad una malattia iniziatica e al fatto di essere poi guariti.
I Nativi Nord Americani definiscono “Sciamani di Plastica” quegli individui che appropriandosi di antichi rituali li riciclano con conoscenza e competenza discutibili, proponendoli al grosso pubblico del mondo occidentale. Costoro compiono un'operazione che di sacro ha poco, di culturale ancor meno, ma che sul piano economico garantisce un buon giro d’affari.
All'interno della nostra povertà simbolica e spirituale hanno un certo successo le proposte che garantiscono l'illuminazione in un fine settimana, prevedendo uno scarso impegno personale, un forte coinvolgimento emotivo e un alto prezzo in termini monetari. Tutto questo nulla ha a che fare con il profondo significato dell'esperienza sciamanica e con la potenziale ricchezza interiore che ne deriva.
Non so se don Juan Matus si possa considerare uno sciamano, nel senso in cui questo termine è utilizzato dagli etnologi; certo la sua figura riempì di entusiasmo antropologi, studenti, ricercatori del meraviglioso, figli dei fiori, psicologi, teorici dello sballo e sognatori in genere. Forse più di ogni altro autore Castaneda è responsabile del risveglio dell'interesse per le culture native americane e per lo sciamanismo: gli siamo debitori per questo, ma, personalmente, non ravviso nella Tensegrità, nessun contenuto sciamanico, anche se facesse veramente riferimento, ai passi magici di don Juan.
Ritengo che si possano derivare originali e divertenti tecniche dalle tradizioni religiose, magiche e sciamaniche presenti nel mondo; è possibile che si rivelino utili o emozionanti, ma questo non significa seguire una via di conoscenza.
Nessun uomo sacro, medicine-man, sciamano, mago, guaritore, mistico, religioso, serio, si sognerebbe di utilizzare la sua tradizione e le sue conoscenze per proporre un seminario a pagamento. Il motivo è semplice e riguarda due importanti significati. Il primo è legato all'aspetto spirituale e sacro dell'insegnamento: che cosa penseremmo di un individuo che, fingendosi prete, proponesse un corso sulla confessione e la comunione come strumenti di catarsi emotiva e liberazione personale e se lo facesse pagare profumatamente? Il secondo motivo è legato al fatto che una via di consapevolezza prevede un lungo impegno personale ed è proprio Carlos Castaneda a testimoniarlo con la sua esperienza.
Infatti il contributo che, a mio parere, “Carlito” ha dato al mondo è legato proprio al percorso di conoscenza che ha indicato nei suoi primi quattro libri: un viaggio interiore che permea la totalità dell'individuo investendo tutte le dimensioni dell'essere: quella fisica, quella psichica, quella spirituale.
3.2 La via della conoscenza
Un uomo che sceglie la via della conoscenza incontra quattro nemici naturali.
Il primo è la paura, tutti la incontriamo, ma soltanto il guerriero saprà affrontarla adeguatamente; soccombere alla paura significa precludersi la possibilità di imparare. Chi fugge di fronte al terrore non sarà mai un uomo di conoscenza, sarà borioso, innocuo o spaventato; in ogni caso sarà un uomo sconfitto.
Se la paura è annientata l'uomo riceve in dono la lucidità: conosce i suoi desideri e sa come soddisfarli, egli sente che nulla è nascosto, ha il controllo razionale delle sue azioni. Ma se la lucidità è un dono, essa rappresenta anche il secondo nemico poiché scaccia la paura, ma acceca. L'uomo non dubita mai di se stesso, è sicuro di poter fare tutto ciò che vuole, vede chiaramente in tutto, è coraggioso, non si ferma di fronte a nulla, ma tutto questo rappresenta una sorta di falso potere; chi si arrende a questo nemico rimarrà bloccato e si trasformerà in un “allegro guerriero o in un pagliaccio”. Avrà la lucidità, ma non imparerà più nulla.
Se l'uomo a questo punto ingaggerà una battaglia con la lucidità, imparerà a usarla e scoprirà che “era solo un punto davanti ai suoi occhi”. In quel momento saprà che il potere e la potenza a lungo ricercati sono suoi: può fare tutto quel che vuole, è veramente invincibile, il suo desiderio è la regola. Ma proprio in queste possibilità si cela la trappola: il potere è il nuovo nemico e chi si arrende diventerà un essere crudele e capriccioso che non incontrerà mai la conoscenza perché “non ha il comando su se stesso, e non può sapere quando o come usare il suo potere”.
L'uomo sulla strada della conoscenza deve sfidare il suo potere e rendersi conto che non è mai veramente suo, ma “solo un fardello sul suo destino”; saprà allora come e quando usarlo e in questo modo avrà sconfitto il suo terzo nemico.
A questo punto egli incontrerà il quarto nemico: la vecchiaia. L'uomo non ha più paure, non è bloccato dalla lucidità, ha in pugno il suo potere personale e prova un gran desiderio di riposare. Se si lascia catturare dalla stanchezza, avrà perduto la sua battaglia e la vecchiaia lo renderà debole distruggendolo. “Ma se l'uomo si spoglia della sua stanchezza, e affronta il proprio destino, può allora essere detto uomo di conoscenza, pur se soltanto per il breve momento in cui riesce a sconfiggere il suo ultimo e invincibile nemico. Quel momento di lucidità di potere e di conoscenza, è sufficiente”.[29]
Come è facile intuire percorrere una via di conoscenza è un lavoro a tempo pieno che dura tutta la vita e don Juan indica i punti fondamentali di questo percorso. Analizzeremo in modo dettagliato gli insegnamenti di don Juan nella seconda parte di questo lavoro, poiché costituiscono un elemento importante della pratica dell'Attenzione Interiore.
Due concetti fondamentali nella descrizione del mondo proposta da Castaneda nei suoi libri, sono quelli di Tonal e Nagual.
In lingua nahuatl[30] il termine tonal significa “giorno” o “regalo” e il Tonalpohualli è il calendario lunare che gli Aztechi presero a prestito dai Maya cambiandovi soltanto i nomi. Castaneda, nel libro L'isola del Tonal, dice: “Sapevo che il 'tonal' era considerato una sorta di spirito protettore, solitamente animale, che il bambino riceveva alla nascita e con il quale manteneva stretti vincoli per tutta la vita”.[31]
I Maya e quindi gli Aztechi, avevano tre calendari: del Sole, della Luna e di Venere, sicuramente l'autore si riferisce al fatto che nel Tonalpohualli ogni giorno è rappresentato da animali oppure oggetti; questi giorni-segni sono 20, cioè i giorni del calendario lunare che si ripetono per le tredici fasi lunari a costituire l'anno che è di 260 giorni.
Per esempio: la mia data di nascita è il 25 dicembre 1952, secondo il Tonalpohualli il mio giorno è ome Itzcuintli cioè “due cane”; questo significa che i canidi (non soltanto il cane quindi, ma anche il lupo, il coyote, ecc.) sono miei protettori e in qualche modo indirizzano la mia vita.
Don Juan però non intende il termine in questo senso, con tonal egli indica, in riferimento all'individuo, la personalità sociale e, in riferimento al mondo, tutto ciò che incontrano i nostri sensi. Il tonal personale ha inizio con la nascita e si conclude con la morte, esiste però un tonal collettivo, il tonal del tempo o di un'epoca che coinvolge tutti in ogni momento. Don Juan paragona il tonal a un'isola e utilizza il tavolo di un ristorante come esempio. Tutto ciò che si trova sul tavolo, piatti, posate, oliera, salino, serviette, è nominabile, descrivibile, rappresentativo della realtà ordinaria di cui siamo testimoni.
L'ego è tonal e in questo senso è paragonabile all'io costituito dai dharma e dai cinque skandha del Buddhismo: anche per don Juan ciò che è definito realtà è maya: illusione, non esiste la realtà in termini oggettivi, esiste soltanto la descrizione della realtà che ognuno soggettivamente fornisce; al momento della morte gli elementi aggregati dall'attenzione si separano e la persona scompare. Ma tra le due posizioni l'atteggiamento fondamentale è differente: mentre i buddhisti desiderano estinguere l'ego che, come una trappola, imprigiona gli individui nella gabbia del karma, per raggiungere il nirvanae l'atteggiamento consigliato è il distacco dal mondo; don Juan considera fondamentale occuparsi del tonal, che deve essere ripulito e reso perfetto, e usarlo; soltanto attraverso questa operazione è possibile trascendere la realtà ordinaria e incontrare il nagual.
Questo termine presenta, rispetto al precedente, qualche problema in più, perché ha diversi significati. In lingua nahauatl, la parola nahual, significa letteralmente “travestimento” e si collega all'idea di travestire l'occulto al mondo ordinario. Nella tradizione nativa del Messico però il nahual è anche il “doppio” che ogni persona possiede nel mondo animale, una sorta di identificazione in un animale guida e protettore. Ma il nahual rappresenta anche il lato nascosto della nostra personalità, il lato “oscuro”; ilnahual è una forza: “Questa forza è di un altro ordine e può essere definita in molti modi. Certi Messicani la definiscono volentieri la potenza del Nagual e si dirà dei maestri che hanno compiuto il viaggio interiore attraverso questa percezione trascendente che sono divenuti essi stessi dei Nagual. Sono degli esseri che hanno acquisito il potere di vivere nello stesso momento nel nostro spazio-tempo e fuori dalle sue coordinate. I loro poteri magici vengono da una funzione ipnotica che permette loro di indurre occasionalmente ad altri esseri umani questo genere d'esperienza”.[32] Quindi nahual assume un ulteriore significato e indica il maestro o il brujo. Così lo intende Castaneda: “Nagual era il nome attribuito all'animale in cui gli stregoni pretendevano di potersi trasformare o allo stregone che attuava questa trasformazione”.[33]
Ma per don Juan il concetto di nagual è più complesso è “la parte di noi per la quale non c'è descrizione - non parole, non nomi, non sensazioni, non sapere... Il nagual è lì - disse. - Lì, tutt'intorno all'isola. Il nagual è lì, dove il potere si libra”.[34]
Il nagual è il mare di tutte le possibilità, è il principio indefinibile e indescrivibile di ogni cosa, è in ogni cosa, è soltanto un riflesso dell'indescrivibile Vuoto che contiene ogni cosa; non ha fine, non ha limiti, non ha tempo.
Castaneda chiede a don Juan se il nagual allora è Dio e il maestro risponde: “'No. Anche Dio sta sulla tavola. Diciamo che Dio è la tovaglia'. Fece un gesto buffo, come per ammucchiare la tovaglia con tutto il resto. '... il nagual non è Dio, perché Dio è un elemento del nostro tonal personale e del tonal del tempo. Il tonal, vi ho già detto, è tutto ciò di cui pensiamo sia costituito il mondo, compreso Dio, naturalmente. Dio non ha importanza che nella misura in cui fa parte del tonal del nostro tempo... Dio è soltanto ogni cosa di cui potete pensare: dunque, propriamente, è solo un altro elemento sull'isola. Non si può essere a piacimento testimoni di Dio*, di lui si può solo parlare. Il nagual invece è al servizio del guerriero. Se ne può essere testimoni, ma non se ne può parlare”.[35]
Da questo brano appare una forte analogia tra il concetto di nagual e quello di Tao. Abbiamo visto che il Taoismo si fonda su antiche discipline praticate dagli sciamani; affermare che alcuni di questi insegnamenti abbiano seguito le migrazioni dall'Asia verso l'America, non è scientificamente dimostrabile, ma è un'ipotesi affascinante che varrebbe la pena di approfondire.
Il nagual, per alcuni aspetti, è anche avvicinabile all'idea di nirvana, soprattutto perché altrettanto indescrivibile attraverso la razionalità; ma, a mio parere, la sostanziale differenza tra i due concetti è legata allo stile di vita necessario per raggiungerli e alla finalità dell'esistenza che non prevede, nella visione di don Juan, l'estinzione dell'individualità.
Dice ancora don Juan: “Dal momento in cui siamo nati, intuiamo che per noi ci sono due parti. All'istante della nascita, e ancora per un po' di tempo dopo, siamo soltanto nagual. Poi intuiamo che, per funzionare, abbiamo bisogno di una controparte a ciò che abbiamo. Il tonal ci manca, e questo ci imprime, fin dall'inizio della vita, un senso di incompletezza. Poi il tonal, comincia a svilupparsi e diviene enormemente importante per il nostro funzionamento, tanto importante che offusca la lucentezza del nagual, la sopraffa. Dal momento in cui diventiamo soltanto tonal, non facciamo altro che accrescere il nostro iniziale senso di incompletezza che ci accompagna dalla nascita e che continuamente ci dice: ci vuole un'altra parte per essere completi.
Dal momento in cui diventiamo soltanto tonal, cominciamo a formare delle coppie. Intuiamo i nostri due lati, ma li rappresentiamo sempre come gli elementi del tonal. Diciamo che le nostre due parti sono l'anima e il corpo. O pensiero e materia. O bene e male. O Dio e Satana. E non ci rendiamo conto che continuiamo soltanto a comporre coppie con ciò che sta sull'isola... L'uomo non muove tra bene e male... il suo vero moto è tra negativo e positivo”.[36]
Se il nagual emergesse nella vita di un individuo senza consapevolezza e controllo, potrebbe essere pericoloso e potrebbe causare effetti distruttivi; è per questo motivo che il tonal ci protegge dal nagual eliminandone ogni possibile intrusione, così facendo però da protettore diventa carceriere. Per l'uomo comune è soltanto nel momento della morte che il tonal esplode e allora emerge il nagual; per l'uomo di conoscenza, invece, questa esplosione avviene in vita, quando immergendosi nell'ignoto, incontra il nagual.
I discorsi di Don Juan, potrebbero avere qualcosa in comune con l'induismo; infatti nella descrizione riportata incontriamo due principi: il nagual e il tonal, così come nell'induismo sono presenti il brahmane il samsara. La principale differenza, oltre all'idea della rinascita che non è mai considerata nei libri di Castaneda, è rappresentata dal fatto che il tonal non è da eliminare come il samsara sostenuto damaya, ma da comprendere e da utilizzare. L'essere umano crede che la realtà sia una e questo è illusione; le realtà sono infinite e l'uomo di conoscenza deve imparare a muoversi consapevolmente in questo infinito, egli si trova al “crocevia dei mondi” e può decidere quale mondo scegliere.
La dualità della coppia tonal-nagual regge i mondi, tutte le coppie che possiamo incontrare in una descrizione appartengono esclusivamente al tonal di quella descrizione. Un esempio chiarirà questo concetto. Nel libro Viaggio a Ixtlan, Castaneda durante un'esperienza di “caccia al potere”, incontra un coyote luminoso con cui parla; egli si chiede se questo sia stato un evento reale oppure il prodotto di un'allucinazione. Don Juan gli risponde: “'Ieri il mondo è diventato come gli stregoni ti dicono che è... in quel mondo i coyote parlano, e anche i cervi, come ti ho detto una volta, e anche i serpenti a sonagli, gli alberi e tutti gli esseri viventi. Ma quello che voglio che tu impari è vedere. Forse ora sai che si vede solo quando ci si insinua tra i mondi, il mondo della gente comune e il mondo degli stregoni. Ora sei giusto in mezzo ai due mondi. Ieri hai creduto che il coyote ti avesse parlato; qualsiasi stregone che non vede crederebbe la stessa cosa, ma uno che vede sa che credere questo vuol dire essere inchiodati nel regno degli stregoni. Per la stessa ragione, non credere che i coyote parlino significa essere inchiodati nel regno degli uomini comuni'.
'Don Juan, volete dire che né il mondo degli uomini comuni né quello degli stregoni è reale?'.
'Sono mondi reali, potrebbero agire su di te. Per esempio, avresti potuto chiedere al coyote tutto quello che volevi e lui sarebbe stato costretto a risponderti. Il solo lato negativo è che i coyote non sono attendibili, sono degli imbroglioni”.[37]
Esiste un tonal delle persone comuni e un tonal degli stregoni e l'uomo di conoscenza può usarli entrambi, l'importante è che non si faccia imprigionare dall'illusione che siano l'unica realtà. Chi vede sa che in un certo senso tutti i mondi infiniti sono reali, ma solo in relazione al loro tonal. Molti ricercatori spirituali incontrano mondi differenti da quello ordinario e spesso credono di essere entrati in contatto con 'l'assoluto', ma sono semplicemente entrati in contatto con un altro allineamento della realtà, con un'altra descrizione: l'unico assoluto è il nagual. Quindi i concetti di brahman, nirvana, grande mistero,tao e nagual, hanno in comune la rappresentazione di una dimensione alternativa al qui e ora, percepibile, ma non descrivibile con le parole e la razionalità. A questa dimensione “altra” l'essere umano può avere accesso a patto che frantumi la realtà ordinaria che lo ingabbia. Questo è l'obiettivo dell'individuo che cerca la conoscenza: quando le sbarre dell'illusione cadranno egli vedrà.
Proprio perché è una percezione indescrivibile ogni tentativo di descrizione genera un rafforzamento dell'illusione e allontana dalla consapevolezza.
Nel trattare l'Attenzione Interiore utilizzerò i termini spirito o mistero, sia per indicare la dimensione nagual dell'individuo, sia per indicare tutto ciò che circonda il tonal; non tenterò interpretazioni e definizioni e non assocerò questo concetto ad un principio teista: descrivere Dio significa ricondurlo al tonal, qualunque cosa esista oltre l'orlo del mistero è nagual e si può soltanto sperimentare direttamente.
I
Definizione
1.1 Psicologia e psicoterapia
L'attenzione interiore è un percorso di conoscenza e di crescita personale che permette di realizzare un rapporto di consapevolezza con se stessi e con il mondo.
L'attenzione interiore non è un metodo psicologico.
La psicologia è la scienza che studia il comportamento, i fenomeni della vita affettiva e mentale dell'essere umano (istinti, emozioni, sentimenti, percezioni, memoria, volontà, intelligenza); nascendo come interrogazione sull'uomo, si basa quindi sulla formulazione di ipotesi e teorie complesse sulla natura umana e in particolare sulla psiche.
Dalla fine dell'ottocento ad oggi, la psicologia è andata diversificandosi, espandendosi, frammentandosi in scuole e linguaggi, senza aver fornito un aumento di certezze sulla natura umana. Confrontandola con le scienze esatte, non è possibile non osservare che essa non ha conseguito risultati paragonabili ai successi, per esempio, della chimica e della biologia.
Esistono molte scuole psicologiche, alcune di esse si fondano su presupposti teorici tra loro molto distanti se non in totale opposizione e, a mio parere, nessuna è riuscita sino ad ora a fornire una risposta completa sull'origine e il significato dei comportamenti umani.
L'attenzione interiore non ha questi obiettivi, non intende spiegare nulla e neppure formulare teorie sulla natura umana, sul comportamento o sul modo del funzionare psichico. La dimensione psicologica è sicuramente molto importante, ma rappresenta soltanto un aspetto della persona, è una chiave di lettura legata soprattutto ad una visione razionale della realtà psichica. La psicologia è un ottimo strumento di lavoro per analizzare alcuni aspetti del tonal, ma trascura altre dimensioni dell'essere umano irraggiungibili con un approccio esclusivamente scientifico e razionale.
È mia convinzione che le varie teorie psicologiche non si escludano tra loro, al contrario ritengo che possano integrarsi e che il futuro della psicologia percorrerà la via della sintesi.
A questo proposito riporto quanto scriveva C.G. Jung in riferimento ai metodi psicoterapeutici: “Ciascuno di essi si basa su particolari presupposti psicologici e produce particolari risultati psicologici, difficilmente comparabili, talvolta addirittura incommensurabili. Era dunque naturale che gli esponenti dei singoli punti di vista, per semplificare le cose, ritenessero errata l'opinione altrui; ma un'obiettiva valutazione dei fatti dimostra che a ciascun metodo e a ciascuna teoria va riconosciuto un certo credito, poiché essi hanno tutti al proprio attivo non soltanto determinati successi, ma anche dati di fatto psicologici che provano ampiamente i rispettivi presupposti. Noi ci troviamo perciò nei riguardi della psicoterapia in una situazione paragonabile a quella della fisica moderna che per esempio, a proposito della luce, possiede due teorie contraddittorie. E come la fisica non trova insormontabile questa contraddizione, così anche in psicologia la possibilità che si diano molti punti di vista non dovrebbe far ritenere le contraddizioni inseparabili né le diverse concezioni del tutto soggettive e quindi incomparabili”.[38]
Ritengo che in psicologia valga lo stesso principio espresso nell'ambito della mistica: quando due dottrine si escludono reciprocamente, non possono essere tutte due vere: una delle due sarà falsa, o entrambe. Quindi, pur concordando con Jung su quanto ho appena riportato del suo scritto, ritengo che non sia necessario considerare vere entrambe le dottrine, ma stabilire che cosa ci sia di vero e utile in ognuna.
Bandler e Grinder, ideatori della Programmazione Neurolinguistica (PNL), si pongono in modo estremamente anticonformista nei confronti delle varie teorie sul funzionamento della psiche; nella PNL una teoria ha significato solo se rende possibile la comprensione di tecniche efficaci. Il concetto è quindi ribaltato: non è più la teoria che giustifica le tecniche, ma sono le tecniche efficaci che giustificano l'uso di una teoria che diventa, per il terapeuta, un punto di riferimento, un utile modello, una sorta di necessaria mitologia.[39]
I due autori utilizzano il concetto di modello, contrapposto a quello di teoria: “Il modello è semplicemente la descrizione di come qualcosa opera, senza doversi impegnare a precisare perché. Una teoria è gravata dall'onere di trovare una giustificazione che spieghi perché i vari modelli sembrano collimare con la realtà. Noi siamo dei modellisti e chiediamo al lettore di giudicare quest'opera come un modello, ignorando se esso sia vero o falso, giusto o sbagliato, esteticamente piacevole o spiacevole, per scoprire invece se sia funzionale, se sia utile o inutile”.[40]
L'attenzione interiore propone modelli e percorsi, ma non elabora teorie; quindi l'atteggiamento nei confronti della psicologia è di utilizzare tutto ciò che questa scienza propone attraverso l'espressione delle sue varie scuole, senza identificarsi in alcuna di esse e senza limitare all'aspetto psicologico l'approccio alla persona e alla vita.
L'attenzione interiore non è una psicoterapia.
Con psicoterapia s’intende l'insieme dei metodi psicologici che sono usati per rimuovere disturbi mentali, emotivi e comportamentali in un soggetto; ciò può avvenire mediante colloqui ed esperienze individuali o in piccoli gruppi.
Le tecniche terapeutiche moderne si differenziano tra loro sia in funzione delle premesse teoriche, sia attraverso le scelte metodologiche; la prima grande differenza è legata al fatto che alcuni vogliono rendere cosciente l'inconscio e analizzare la prima infanzia del paziente, mentre altri operano sulla modificazione dei vissuti coscienti e dei comportamenti spontanei. Un altro punto controverso verte sul dilemma se il comportamento sia controllato dall'esperienza psichica interiore e personale o dalla condotta esteriore. I teorici dell'ambiente considerano più significativi i fattori sociali, mentre gli studiosi di orientamento genetico e biochimico insistono sulle predisposizioni biologiche e sui disturbi e squilibri del ricambio. Da sempre questi orientamenti si battono per il sopravvento e ciascuno pretende di poter guarire un vasto settore di disturbi mentali; forse sarebbe più sensato esplorare quale cura abbia migliore effetto su certi sintomi e in certe condizioni piuttosto che chiedersi quale sistema sia il migliore.
Terapia significa cura, il termine psicoterapia indica quindi una cura della psiche: chi ha bisogno di psicoterapia è psicomalato.
L'attenzione interiore non è un metodo di cura, ma un approccio all'esistenza e non si occupa di psicomalati, ma dell'essere umano e della sua crescita sul piano personale e spirituale.
1.2 La cultura del problema
L'attenzione interiore non si occupa di problemi.
Ritengo che uno dei più grossi disagi del nuovo millennio sia da identificare in quelli che ho definito “i falsi problemi”.
La parola “problema” deriva dal greco antico e in quella lingua significava “questione proposta”, il termine derivava a sua volta dal verbo probàllein “mettere avanti, proporre”. Molte parole di derivazione greca o latina da noi comunemente usate, hanno perso parzialmente o completamente nei secoli il loro significato originale acquisendone uno nuovo, spesso carico di connotazioni negative. Nel nostro linguaggio abituale infatti, il vocabolo problema, escludendo il suo significato matematico o scientifico, è comunemente definito come “caso complicato, difficile da risolvere, situazione preoccupante”, perdendo quindi la sua originaria connotazione di quesito o di proposta.
La cultura in cui viviamo è una “cultura del problema”, tutto è complicato, difficile, preoccupante: il problema della gravidanza, quello del parto e della nascita; il problema dell'infanzia, dell'adolescenza, della giovinezza, della maturità, della mezza età, dell'essere anziani, della vecchiaia e della morte; il problema del gioco, della scuola, del lavoro, del tempo libero e della pensione; il problema del sesso, della coppia, dell'essere single, della solitudine, dell'affollamento; il problema della salute, della malattia, della bellezza, del look, del successo e dell'insuccesso; il problema della droga, dell'alcolismo, della violenza...
La vita è un problema.
Le cose sono vissute e affrontate in termini problematici, anche gli spazi normalmente divertenti, il divertimento stesso, divengono esperienze faticose e preoccupanti: “il problema delle vacanze”!
È facile intuire come il vivere, a questo punto, diventi la fatica di vivere e come il malessere serpeggi e dilaghi indisturbato. Sembrerebbe paradossale che proprio la società del benessere ad ogni costo, abbia generato la cultura del problema, ma non è un paradosso: è la logica conseguenza. Se star bene ed essere felici diventa un dovere, un obbligo, la condizione necessaria per sentirsi adeguati, utili, normali; qualsiasi ostacolo, qualsiasi neo, qualsiasi difficoltà, qualsiasi prova o trasformazione, divengono necessariamente fonte di preoccupazione e disagio perché minacce dello stato di equilibrio, potenziali cause di malessere, possibili produttori di infelicità e quindi di inadeguatezza.
Ci sono persone che soffrono in seguito alle loro reali difficoltà, ma vivono anche una sofferenza aggiuntiva sentendosi in colpa per il fatto stesso di soffrire, quasi che la sofferenza sia un'anomalia, una mostruosità, qualcosa di cui vergognarsi.
Infatti è così, l'imperativo dominante è “sii felice e non disturbare”. Una persona infelice è un pericolo per tutti, in primo luogo è fastidiosa, con quel suo umore nero, l'aria depressa, le domande imbarazzanti, i comportamenti inquietanti, le richieste irrazionali o irrealizzabili, le esplosioni d'ira, gli improvvisi mutamenti d'umore. In secondo luogo stimola il senso di colpa: “Sarò io la causa del suo malessere?”, ci chiediamo nel segreto di noi stessi, se questo fosse vero vorrebbe dire che abbiamo sbagliato in qualcosa, o peggio, che siamo cattivi, egoisti, insensibili. Non possiamo accettare questa possibilità, ci creerebbe malessere, dovremmo interrogarci, magari cambiare, potremmo a nostra volta soffrire, diventare come l'altro... Meglio di no, meglio dirgli di smettere, meglio dirgli di piantarla con i suoi atteggiamenti incomprensibili e assurdi che ci addolorano, che ci fanno soffrire; naturalmente è soltanto per il suo bene che lo diciamo, perché lo amiamo, perché volendogli bene non possiamo accettare che soffra così tanto.
Se poi il sofferente è un estraneo o peggio un avversario ci sono ulteriori motivi per dirgli di smettere: infine che diritto ha di entrare così rumorosamente nella nostra vita creando disordine e confusione soltanto perché non è in grado di cavarsela da solo o perché ci ha scelti come capro espiatorio delle sue follie? Che la smetta e subito!
In compenso ci sono persone che fanno della sofferenza e del malessere uno stile di vita, costoro non sviluppano sensi di colpa nei confronti del loro disagio, anzi, normalmente non sviluppano sensi di colpa nei confronti di nulla: i colpevoli sono gli altri.
Questi individui, pur avendo costantemente problemi e soffrendo intensamente per questo motivo, a differenza dei precedenti che si prendono carico delle proprie difficoltà, attribuiscono le loro sofferenze agli altri esseri umani siano essi amici o nemici (per costoro forse non ci sono amici, tutti sono nemici e coloro che si pongono con atteggiamento amichevole nei loro confronti sono sicuramente falsi o hanno secondi fini); ad entità astratte quali la vita, il destino e la sfortuna; o soprannaturali quali Dio, il diavolo, anime trapassate e malevole, spiriti malvagi in genere, inclusi streghe, maghi e ogni tipo di affatturatori.
La scelta del colpevole dipende normalmente dal modello culturale, dalle credenze della persona o dalla situazione in oggetto; il risultato però è identico in ogni caso: il perseguitato è vittima di qualcosa di esterno e incontrollabile.
Accanto a queste considerazioni legate al tipo di approccio personale ai vissuti problematici e al disagio, è bene notare un altro aspetto della cultura del problema, ossia la tendenza a creare grandi titoli con cui definire aree problematiche.
Farò un esempio pratico.
Prendiamo uno dei temi più scottanti e preoccupanti degli ultimi anni: la droga.
Sono state scritte migliaia di pagine sull'argomento, sono state organizzate conferenze, tavole rotonde, dibattiti; filosofi, psicologi, medici, sociologi, religiosi, economisti e politici, hanno espresso il loro parere a riguardo, si è parlato di repressione, prevenzione, liberalizzazione della droga. Qualcuno si è addirittura chiesto come mai una persona arrivi a far uso di stupefacenti, si sono cercati i colpevoli, le vittime, i responsabili, le soluzioni... Così si è costruito un grosso barattolo con su scritto: “Il problema della droga”, un barattolo esterno ad ognuno di noi, lontano dalla nostra esperienza, un barattolo a cui attribuire uno dei motivi del malessere esistenziale, una cosa che ci permette di dire: “Dove andremo a finire!”, oppure: “In che tempi viviamo!”. Se poi cadiamo nel barattolo o ci cade qualcuno che ci è vicino, il barattolo diventa il colpevole della situazione, non è necessario che ci chiediamo dei perché, sono già lì, tutti compresi nel contenitore, basta scegliere: ci sono spiegazioni, colpevoli, vittime e soluzioni. È tutto confezionato, qualsiasi possa essere la nostra posizione a riguardo la troveremo debitamente descritta e compilata. È la droga il problema, il nemico da battere, o lo strumento da usare per evadere dal quotidiano invivibile. È la droga da distruggere per impedire che distrugga. È la droga da cercare e da usare per impedire di essere distrutti.
Così la droga diventa qualcosa di scollegato da noi e dal reale, pur essendo costantemente collegata agli altri contenitori problematici del nostro mondo, una sorta di demone dotato di identità e vita propria, anziché un gigantesco burattino che ognuno di noi contribuisce ad animare.
Il barattolo è comodo perché spiega, condanna, assolve.
Non voglio certamente dire che la tossicodipendenza non rappresenti un grave problema sociale e ritengo sia necessario affrontarlo con competenza e serietà, lo definisco un falso problema soprattutto per il modo con cui è presentato dall'autorità e dai media e conseguentemente vissuto dalla gente. La droga, così come le difficoltà sessuali, la violenza o qualsiasi altro contenitore problematico, rappresenta in realtà l'effetto finale di un lungo percorso che affonda le proprie radici in terreni molto lontani e profondi. Occuparsi della punta dell'iceberg di freudiana memoria è importante, rischia però di diventare un'operazione sterile se non ci si occupa della montagna sommersa.
A mio avviso i falsi problemi rappresentano l'effetto di un disagio, trattarli come cause è mistificatorio e pericoloso. Quindi, oltre a mettere in discussione una visione della vita letta sempre più come sequenza di problemi, è bene analizzare le situazioni considerate normalmente colpevoli, non in termini di cause, ma in termini di effetti.
La distinzione tra problema letto come evento negativo e problema letto come proposta, quesito da risolvere, è fondamentale perché definisce un certo modo di avvicinarsi alla vita. È la differenza tra subire e agire, tra dovere e volere, è considerare l'equilibrio un problema della statica oppure della dinamica, il malessere come anomalia oppure come componente naturale dell'esistere, la morte come fine della vita oppure come evento della vita.
Credo che sia fondamentale per ognuno una riappropriazione del proprio malessere in termini positivi, ci sono troppe persone che soffrono soltanto perché escludono la sofferenza dai parametri esistenziali oppure che si vergognano della loro sofferenza poiché è la prova della loro inadeguatezza.
Se la ricerca del benessere e della felicità è un obiettivo auspicabile, ritengo che sia possibile raggiungerlo soltanto inserendo nel gioco la sofferenza come componente inevitabile.
Ogni volta che subiamo una frustrazione, veniamo privati di qualcosa a cui teniamo, non realizziamo un progetto importante, proviamo dolore. È inevitabile, visto che la maggior parte di noi non ha raggiunto lo stato di buddità, o di illuminazione mistica totale; ma anche raggiungendo tali livelli di crescita spirituale il dolore continuerebbe a esistere, sarebbe semplicemente cambiato il nostro atteggiamento nei suoi confronti. Il dolore e la sofferenza fanno parte della vita così come ne fanno parte la felicità e la gioia; partendo da questa considerazione dolore e sofferenza diventano molto più accettabili, smettono di essere sbagliati o brutti, sono soltanto difficili da vivere.
1.3 Bene e male
Una grave causa di malessere è legata al concetto di bene e di male.
Sarebbe utile uscire da un modello umanocentrico in cui tutto è misurato in termini di bene e di male, di giusto e di sbagliato, di bello e di brutto, di normale e di anormale, basandosi esclusivamente sul punto di vista della razza umana o di un gruppo appartenente ad essa.
Non credo esistano i cattivi, credo che ognuno di noi spesso compia azioni cattive.
Non credo in un principio malvagio immanente contrapposto ad un principio benevolo altrettanto immanente.
Dietro ad ogni crudeltà e violenza, non si nasconde la cattiveria, si nascondono egocentrismo, egoismo, avidità, scarsa considerazione degli altri, scarso rispetto per gli altri, stupidità, ignoranza, fanatismo, integralismo, intolleranza, onnipotenza.
La cattiveria è un altro barattolo che spiega tutto.
È un barattolo pericoloso.
Prendiamo ad esempio un dittatore fanatico, oppure un fondamentalista religioso, che chiameremo X e proviamo a metterci nei suoi panni. Le idee e la visione del mondo di X rappresentano la verità assoluta e sono quindi superiori, più giuste di quelle di chiunque altro. Il compito di X è quello di diffondere la verità, se necessario imponendola con la violenza, al fine di promuovere il bene e la giustizia necessari per salvare un popolo, una nazione… il mondo. Chi si oppone all’idea di X è un nemico, in quanto incarnazione di ogni male e causa di disagio per l'umanità.
L'unica soluzione per avere un mondo tranquillo, buono e giusto, è quella di eliminare i nemici.
Nel secolo scorso, e purtroppo anche oggi, sono vissuti e vivono, diversi personaggi dominati da questo modello di pensiero, non mi sto quindi riferendo soltanto a Hitler e Stalin.
Ad esempio, Hitler non fu il primo a occuparsi del “problema ebraico”, nel medioevo se n'era già occupato Tomàs de Torquemada (1420-1498), il grande inquisitore spagnolo che realizzò per conto di Ferdinando d'Aragona e Isabella di Castiglia (quelli delle tre caravelle di Cristoforo Colombo), la spogliazione, l'eliminazione e la cacciata degli Ebrei dalla Spagna.
Ho la sgradevole sensazione che se per caso Hitler avesse vinto la seconda guerra mondiale, agli Ebrei sarebbe toccata la sorte di altri “cattivi” tradizionali come gli Indiani d'America o le popolazioni autoctone dei paesi “colonizzati” nel corso dei secoli. Forse sarei cresciuto vedendo al cinema eroiche SS fare i conti con cattivi ebrei o bolscevichi e dopo mille peripezie aver finalmente ragione dei nemici, avrei visto il bene trionfare sul male: quello che mi spaventa è che probabilmente ci avrei creduto, visto che da bambino credevo che i Nativi Americani fossero i cattivi.
Il problema di X, sta nella sua convinzione ed in quella dei suoi seguaci, di far bene, di essere nel giusto.
Hitler, come Torquemada, Stalin, i politici statunitensi che permisero il genocidio degli indiani d’America e tutti coloro che nei secoli si sono arrogati il diritto di decidere dell'altrui esistenza, in nome di una religione, una filosofia, una politica, una ragion di stato, una purezza razziale; appartengono alla categoria di coloro che pensano di conoscere con certezza la differenza tra il bene ed il male e il bene normalmente coincide con il loro punto di vista. Non sono cattivi, intendendo con “cattiveria” una malvagità intrinseca, fine a se stessa: sono convinti.
Non sono i cattivi ad essere pericolosi: sono i convinti. Gli uomini di dubbio forse non distinguono con chiarezza il senso della morale e la differenza tra il bene e il male, il giusto e lo sbagliato, però normalmente non compiono stragi.
La morale tranquillizza poiché può giustificare in termini rassicuranti i nostri comportamenti di aderenza al modello dominante anche quando sono distruttivi o contrari alle leggi naturali. Per contro può generare ansia poiché condanna i nostri comportamenti di non aderenza al modello dominante anche quando sono costruttivi o in armonia con le leggi naturali.
Nel corso dei secoli sono stati uccisi milioni di individui in nome di un credo religioso, di un ideale politico, del colore della pelle, delle consuetudini di un popolo opposte a quelle di un altro, utilizzando i concetti di bene e male.
Sarebbe più onesto ammettere che forse apparteniamo ad una specie intraprendente, intelligente, intransigente, intollerante e sanguinaria; capace di vivere in condizioni estreme, pronta per l'interesse del singolo o del clan a commettere qualsiasi azione. Sarebbe più onesto ammettere che forse apparteniamo ad una razza dominata dall'egocentrismo e dal desiderio di onnipotenza che non sono “il male”, ma in nome dei quali siamo disposti a commettere ogni tipo di atrocità. Forse è solo il desiderio di sentirci in pace con noi stessi, di giustificare le nostre atrocità, vittime come siamo di una cultura distruttiva, che ci spinge a creare un concetto di giusto assoluto: il nostro.
Se sono un mussulmano mi toglierò le scarpe entrando in una moschea. Se sono cristiano non mi toglierò le scarpe entrando in chiesa.
Credo che ogni essere umano abbia il diritto di decidere se togliersi o no le scarpe entrando in un luogo a lui sacro, in funzione dei precetti della sua religione; credo sia necessario rispettare questa sacralità se il farlo non mette in pericolo la nostra o l'altrui vita.
Uccidere è male.
Ogni cultura punisce l'omicidio quando non è commesso per legittima difesa.
Uccidere in nome di Dio, della patria, di un'idea, degli interessi di un re, di un dittatore, di un governo, di un gruppo di potere, di un popolo, è legittimo, anzi, doveroso.
Rifiutarsi di uccidere un nemico in guerra può implicare la corte marziale e la morte, come punizione per il mancato omicida. Non sono legittimato ad uccidere per interesse personale, ma lo sono, anzi sono costretto a farlo, in nome di interessi altrui o della comunità. Questa è l'etica del nostro tempo, non scomodiamo il bene e il male per giustificarla.
Non credo sia onesto sopraffare il più debole o l'indifeso, però, osservando la storia, mi pare faccia parte della nostra natura almeno quanto la tendenza alla solidarietà e alla vita. Sarebbe bello non camuffare questa tendenza distruttiva sotto l'insegna della giustizia e della bontà.
1.4 Attenzione interiore e meditazione
L'Attenzione Interiore non è una forma di meditazione.
Abbiamo visto che la meditazione rappresenta il raccoglimento dello spirito intorno alle verità della fede o la pratica ascetica che ha l'obiettivo di raggiungere un'unione mistica con la trascendenza, la liberazione dai vincoli karmici o l'annullamento dell'ego nel nirvana. La meditazione quindi è quasi sempre collegata ad una pratica religiosa. I concetti di crescita personale e ricerca della consapevolezza, sia sul piano psicologico che su quello spirituale, se hanno precise indicazioni per migliorare la qualità della vita, non necessariamente devono essere collegati a tematiche religiose. Il primo obiettivo dell'attenzione interiore non è quello di estinguere le istanze dell'ego e di tacitarlo, bensì quello di imparare ad ascoltare ciò che si agita nel nostro intimo, comprendendo ciò che riguarda l'ego, ciò che proviene da istanze più profonde e dai messaggi inviati dall'inconscio personale e collettivo.
Normalmente l'ego è considerato una struttura monolitica, univoca e ben definita; personalmente ritengo invece che l'ego sia una struttura a grappolo, con varie sfaccettature che si attivano e si manifestano in funzione degli stimoli esterni o in seguito alla pressione delle dinamiche intrapsichiche.
Per realizzare una corretta gestione di se stessi è fondamentale comprendere le componenti e le dinamiche dell'ego, come esso agisce e che tipo di descrizione della realtà ha realizzato. Per dirla nei termini proposti da Castaneda, è necessario definire l'isola del tonal.
Quindi il primo scopo dell'Attenzione Interiore è di realizzare una mappa della realtà in cui ci muoviamo e una mappa che definisca la descrizione che diamo di noi stessi.
L'inconscio è costituito dall'insieme degli impulsi, sentimenti, immagini, idee, percezioni e informazioni che, pur facendo parte del contenuto della mente, non sono conosciuti dal soggetto o vengono da questi ignorati. Il primo a teorizzare il concetto di inconscio collegandolo allo sviluppo della personalità, fu, agli inizi del novecento, lo psichiatra viennese S. Freud. Da quei tempi, gli studi e le teorie si sono moltiplicati, oggi molte scuole psicologiche utilizzano il concetto di inconscio anche se, spesso, attribuendogli significati teorici differenti.
Accanto all'inconscio, dobbiamo considerare una struttura definita subconscio: qui si fermano tutti i contenuti psichici (immagini, pensieri, ricordi, informazioni, motivazioni ad agire) che al momento non sono attivati e quindi sono ignorati dalla coscienza, ma che, in caso di necessità, possono essere utilizzati in qualsiasi momento. Se tutte le informazioni a nostra disposizione affluissero alla soglia di coscienza contemporaneamente, avverrebbe un blocco delle nostre capacità, poiché la quantità immensa di dati sarebbe ingestibile dal cervello. Le informazioni sono invece selezionate in base alle necessità dell'individuo e pescate appunto dal grande serbatoio del subconscio; quindi il subconscio abbraccia quei contenuti psichici che fanno parte dei significati consci a cui non si presta attenzione o che sono inutili nella gestione di una data situazione, ma che possono essere evocati all'occorrenza senza difficoltà e senza sforzo.
Un contributo fondamentale alle dottrine dell'inconscio è di C.G. Jung che ipotizzò, accanto alla coscienza e all'inconscio personale, un'ulteriore dimensione: l'inconscio collettivo.
Immagini psichiche fondamentali preesisterebbero all'individuo, essendo patrimonio della storia delle civiltà; l'inconscio collettivo sarebbe il serbatoio delle immagini primordiali e universali che Jung definìarchetipi.
Gli archetipi sono presenti nelle mitologie, nelle leggende e nelle fiabe; si manifestano attraverso simboli; talvolta emergono nei contenuti di certi deliri psicotici, ma anche in particolari situazioni psicologiche dei soggetti sani, soprattutto nell'arte e nei sogni. Gli archetipi predispongono l'individuo a vivere determinate situazioni ricorrenti nella vita della razza umana (nascita, morte, pericolo...) e a comportarsi in queste occasioni come si comportavano i propri antenati.
Spesso le psicoterapie e in particolare la psicoanalisi, hanno l'obiettivo di rendere cosciente l'inconscio, nell'attenzione interiore avviene il contrario.
Lo scopo dell'attenzione interiore, non è quello di rendere consapevoli e razionali i significati inconsci, quanto di entrare in comunicazione con essi attraverso linguaggi comprensibili alle istanze del profondo. I simboli personali, quelli culturali e i simboli collegati agli archetipi, diverranno parte attiva e propositiva nell'esistenza; i conflitti saranno affrontati e risolti sul terreno neutrale dell'immaginario; potremo aprire una porta che ci introdurrà nella dimensione magica della realtà. A. Jodorowsky in “Psicomagia”, descrivendo i procedimenti usati dalla curandera messicana Pachita, fornisce un buon esempio di come agisce l'attenzione interiore, egli scrive: “Era il modo di utilizzare il linguaggio degli oggetti e il vocabolario simbolico, al fine di produrre determinati effetti sul prossimo; in poche parole, come rivolgersi direttamente all'inconscio tramite il suo linguaggio, fosse attraverso le parole, gli oggetti o le azioni”.[41]
È necessario imparare linguaggi alternativi a quelli imposti dal positivismo. Scrivono B. Dubant e M. Marguerie nel loro saggio sull'opera di Carlos Castaneda: “Il guerriero non è più importante di una qualunque altra cosa ed è in questo che consiste il suo essere guerriero: è mistero nel mistero. Il guerriero può decifrare i presagi, le armonie dell'universo, quando ha abbandonato la credenza 'scientifica' che costruisce su ogni cosa... Quando la ragione rinuncia al suo controllo, tutto appare vivo, cioè dotato di potere, uguale e magnifico... Il mondo percepito dal guerriero è quindi infinitamente più vasto e più libero di quello percepito dall'uomo ordinario: 'C'è tanto di più, in ogni cosa...'. Ecco perché la spiegazione degli stregoni, che certamente non è che una spiegazione, è ben più forte e conforme alle 'meraviglie che ci circondano', di quella dell'uomo ordinario. L'uomo ordinario scambia per totalità quella piccola parte che la sua meschina ragione gli offre; ma il guerriero va, senza sbagliare, verso la totalità di se stesso; non confonde più 'il mondo con ciò che le persone fanno'”.[42]
Il secondo obiettivo dell'attenzione interiore è quello di realizzare un atteggiamento di ascolto nei confronti del mondo, imparando a riconoscere i segnali che da esso provengono. Spesso si “sente” ciò che le persone intorno a noi dicono, ma raramente lo “ascoltiamo” davvero; raramente andiamo oltre il significato apparente delle parole o all'analisi superficiale del sentito. In molte occasioni interpretiamo ciò che ci dicono in funzione di noi stessi, proiettando sugli altri la nostra descrizione del mondo oppure i nostri significati, cadendo nella pericolosa trappola dell'io penso che tu pensi.
Ancor più raramente ci mettiamo in ascolto dei segnali che giungono dalle situazioni, dai luoghi, dagli animali, dai vegetali, dai minerali, dagli oggetti. Il mondo circostante comunica continuamente con noi lanciandoci segnali, stimoli, occasioni di riflessione e di consapevolezza.
Muoversi nell'attenzione interiore significa agire la sincronicità.
Jung introdusse il concetto di sincronicità per indicare la correlazione tra fatti interiori ed esteriori che non si possono spiegare secondo la legge di causa-effetto, riferendosi quindi a quegli eventi che, pur avvenendo nello stesso momento, non sono l'uno la causa dell'altro. Quasi tutti hanno sperimentato coincidenze di questo genere: si pensa ad una persona ed essa dopo pochi minuti telefona; si sogna che un parente o un amico è malato e dopo poco si ha la notizia che ciò è realmente accaduto. Jung indicò nella telepatia, nella chiaroveggenza e in altri fenomeni paranormali, le prove del principio di sincronicità. “Egli sostenne che molte di queste esperienze non possono essere spiegate come coincidenze del caso; esse suggeriscono piuttosto l'esistenza di un altro genere di ordine nell'universo, oltre a quello retto dal principio di causalità”.[43]
Quando tra due o più fatti si sviluppa una relazione sincronica, gli eventi sono paralleli e tra loro connessi, ma tra le due manifestazioni vi è una corrispondenza non causale.
L'attenzione interiore permette di percepire la realtà attraverso la lettura di quelli che don Juan Matus chiama “i segni del mondo”: “'Le piante sono molto strane', disse senza guardarmi. 'Sono vive e sentono'. Proprio mentre pronunciava quelle parole una forte raffica di vento agitò la bassa vegetazione del deserto intorno a noi. I cespugli stormirono.
'Hai sentito?', mi chiese, portando la mano destra all'orecchio come per udire meglio. 'Le foglie e il vento sono d'accordo con me... un uomo può ottenere consensi da tutto ciò che lo circonda' ”.[44]
1.5 Attenzione interiore e destrutturazione
Il verbo destrutturare indica scomporre, disorganizzare un insieme strutturato, scomporre un ordine formale per liberarne nuove potenzialità o meglio comprenderne i meccanismi profondi. Sino a questo punto abbiamo detto soprattutto che cosa l'attenzione interiore non è, diremo ora che cosa è. L'attenzione interiore si fonda sul concetto di destrutturazione. Tutte le religioni, le scuole filosofiche, le scuole psicologiche, i movimenti politici, la scienza in genere, si pongono l'obiettivo di fornire una descrizione della realtà, nel fare questo creano strutture. L'azione dello strutturare implica l'organizzazione di una serie di elementi in rapporto di coordinazione o di interdipendenza reciproca, che andranno a definire l'ossatura o l'intelaiatura di qualcosa. Io stesso, mentre scrivo, sto compiendo un'analoga operazione, per cui può apparire strana l'affermazione secondo cui l'attenzione interiore è legata al concetto di destrutturazione.
Vediamo quindi cosa intendo con destrutturazione.
1.6 Attenzione interiore e percorso eroico
“Gli Eroi compiono il Viaggio, affrontano il drago e scoprono il tesoro del loro vero sé. Quantunque possano sentirsi molto soli durante la loro ricerca, alla fine la ricompensa è un senso di comunione, con se stessi, con gli altri e con la terra. Ogni volta che noi affrontiamo la morte nella vita, affrontiamo un drago, e ogni volta che scegliamo la vita rispetto alla non-vita e ci addentriamo maggiormente nella continua scoperta di chi siamo, sconfiggiamo il drago; portiamo nuova vita a noi stessi e alla nostra cultura. Cambiamo il mondo. Il bisogno di intraprendere il Viaggio è innato nella specie. Se non rischiamo, se giochiamo i ruoli sociali prescritti invece di intraprendere il nostro Viaggio, ci sentiamo spenti, proviamo un senso di alienazione, di mancanza, di vuoto interiore. Le persone che hanno avuto paura di uccidere il drago, interiorizzano l'impulso e uccidono se stesse, dichiarando guerra al proprio corpo, troppo grasso, al proprio carattere, egoista, o a qualche altro loro attributo che ritengono non piaccia. O si ammalano, e devono lottare per riacquistare la salute. Se ci lasciamo dissuadere dalla ricerca, facciamo esperienza della non-vita e, di conseguenza, portiamo meno vita nella cultura”.[45]
Così scrive Carol Pearson, psicologa e scrittrice statunitense, nel suo libro L'eroe dentro di noi. Prima di proseguire con questo discorso è importante definire il concetto di eroe. Il dizionario Garzanti dice: “1. Nelle civiltà primitive, figura mitica, essere eccezionale al quale la comunità attribuisce imprese prodigiose; nel mito classico, uomo nato da una divinità e da un mortale, dotato di eccezionali virtù e autore di gesta leggendarie. 2. Chi dà prova di straordinario coraggio e abnegazione, specificamente in imprese guerresche; chi si sacrifica per affermare un ideale”.
Non intenderò il termine eroe in questo senso, ma come lo definisce Richard Rohr nel suo libro Esercizi dell'anima per soli uomini: “Un eroe, per la cronaca, non è un santo, e ancor meno un dio. Nelle grandi leggende e mitologie, l'eroe è sempre un normale essere umano, dotato di almeno un tragico difetto. Un eroe è uno che tiene contemporaneamente d'occhio se stesso e un obiettivo che va oltre se stesso, un obiettivo chiamato spesso, ma non sempre, Dio. Inoltre, si può essere un eroe in un solo luogo. Una persona può essere solo l'eroe della propria storia. Non si può essere un eroe nella storia di san Francesco. Questo eroismo, in altre parole, non si consegue sognando. Il viaggio verso la felicità richiede il coraggio di penetrare dentro noi stessi e assumerci la responsabilità di ciò che si cela là sotto. Ciò significa guardare al sé senza arretrare, affrontando qualsiasi relitto vi si trovi, ma anche riconoscendo che ci sono delle promesse, che c'è dell'energia, che c'è vita”.[46]
Quindi l'eroe non è un superuomo nietzchiano o un emulo di Rambo, un semi-dio dotato di ultrapoteri, un essere perfetto e onnipotente al di sopra dell'errore, ma una persona che riesce a vivere la propria esistenza utilizzando il linguaggio del mito.
L'Illuminismo e il Positivismo ci hanno convinti che il mito fosse qualcosa di non reale, una favola per bambini, ma non c'è nulla di più vero del mito e venendo a mancare, la gente si disgrega psicologicamente.
Il modello razionale e scientifico ci dice che il Sole è una stella nana di colore giallastro che si trova a 27.000 anni luce dal centro della Galassia da noi chiamata Via Lattea e dista poco meno di 150 milioni di chilometri dal nostro pianeta Terra. Il raggio solare è di 696.000 Km. L'analisi spettroscopica del Sole ci dice che nella stella sono presenti almeno 67 dei 92 elementi naturali conosciuti; i rimanenti atomi sono probabilmente presenti, ma difficilmente individuabili perché troppo deboli. Se le caratteristiche astronomiche del Sole sono quelle sopraelencate, le sue valenze simboliche sul piano archetipico sono altre ed è un errore liberarsene con l'etichetta di “fantasie irrazionali”. Credo sia importante scoprire la natura delle cose attraverso la scienza, ma ritengo altrettanto importante valutarne le risonanze simboliche. Se il sole si spegnesse la vita sul pianeta scomparirebbe e la vita esiste perché il sole feconda con la sua luce e la sua energia la Terra. Non è strano quindi che nei miti il Sole sia considerato capace di fecondare, ma anche di bruciare e uccidere; egli sorge ogni mattina e discende ogni notte nel regno dei morti, di conseguenza può condurre gli uomini con sé e ucciderli tramontando; ma, può anche guidare le anime attraverso le regioni infernali e ricondurle alla luce.
Il sociologo Durkheim, nel 1912, scriveva: “I concetti costruiti in base a tutte le regole della scienza sono ben lungi dal derivare la loro autorità unicamente dal loro valore oggettivo. Non basta che siano veri per essere creduti. Se essi non sono in armonia con le altre credenze, con le altre opinioni, in una parola con l'insieme delle rappresentazioni collettive, essi saranno respinti; gli spiriti saranno loro chiusi, ed essi saranno inesistenti. Se oggi in genere basta che portino il contrassegno della scienza per incontrare una specie di credito privilegiato, è perché noi abbiamo fede nella scienza. Ma questa fede non differisce essenzialmente dalla fede religiosa. Il valore che attribuiamo alla scienza dipende in definitiva dall'idea che ci facciamo collettivamente della sua natura e della sua funzione nella vita; ciò vuol dire che esso esprime uno stato d'opinione. E infatti nella vita sociale tutto, anche la scienza, si basa sull'opinione”.[47] Partendo da queste considerazioni Enrico Comba scrive: “Il pensiero scientifico non gode quindi di uno statuto privilegiato, è anch'esso il prodotto di un determinato sistema sociale e di un complesso di rappresentazioni collettive, al pari del 'sistema totemico' o delle classificazioni primitive”.[48]
Tutto sul pianeta nasce dalla Terra e la vita è possibile perché la Terra nutre e sostiene le sue creature; ciò è possibile perché il Sole la vivifica con i suoi raggi di energia: non mi pare strano considerarli come una madre e un padre. In questo modo forse rispetterò di più la natura e sarò grato all'universo per il fatto stesso di esistere; forse pensando che tutto ciò che mi circonda è stato generato da Madre Terra e da Padre Sole, considererò ogni creatura del pianeta unita a me da un rapporto di parentela; forse smetterò di sentirmi di più o di meno delle creature che mi circondano; forse mi sentirò figlio delle stelle: forse diventerò un selvaggio irrazionale che crede alle favole.
Continua…
Note
[1] Grande Dizionario Garzanti della Lingua Italiana p. 608
[2] Per un risveglio della coscienza, Messaggio degli Irochesi al mondo occidentale, pp. 51-52, La Fiaccola, Ragusa, 1989.
[3]J.Chevalier-A.Gheerbrant -Dizionario dei Simboli - p. 456, Rizzoli, Milano, 1986.
[4]Lao-Tzu -Il libro del Tao - p. 37, Newton, Roma, 1995.
[5] C.G.Jung -Gli archetipi dell'inconscio collettivo -pp.28-31, Bollati Boringhieri, Torino, 1995.
[6] Per semplicità i termini sanscriti non sono scritti nella loro grafia originale, ma utilizzando le lettere del nostro alfabeto.
[7] Le quattro nobili verità sono: 1) tutto è dolore; 2) il dolore ha una causa; 3) il dolore ha un termine: il nirvana; 4) vi è un cammino che conduce al nirvana; esso si articola nell'ottuplice sentiero: retta comprensione (della dottrina), retto pensare e decidere, retto parlare, retto agire, retto modo di sostentarsi, retto sforzo, retta concentrazione, retta meditazione.
[8] W. Rahula - L'insegnamento del Buddha - p. 86, Paramita, Roma, 1994.
[9] T. Hirai - Meditazione Zen come terapia - p. 94, III ed., red./studio redazionale, Como, 1988.
[10] N. Senzaki - P. Reps - 101 storie zen - pp. 37-38, Adelphi, Milano, 1973.
[11] A. De Mello -Un minuto di saggezza - p. 22, Paoline, Torino, 1987.
[12] citato da R.A. Gilbert - Il Misticismo - p. 13, Xenia, Milano, 1994.
[13] Citato da C. Balducci in - L'uomo e l'ignoto - vol. III, p. 784, Armenia, Milano, 1978.
[14] D.T. Suzuky - Mysticism Christian and Buddhist - (1957), citato da R.A. Gilbert op. cit. p. 25.
[15] R.A. Gilbert, op. cit. p. 7.
[16] R.A. Gilbert, op. cit. p. 6.
[17] C. Fort - Conversazioni con Carlos Castaneda - p. 39, Il Punto d'Incontro, Vicenza, 1995.
[18] G. Romagnoli - Castaneda l'apprendista sciamano - La Stampa, Torino, 20/06/98.
[19] Popolazione nativa americana residente nel sud-ovest degli Stati Uniti e nel nord del Messico.
[20] Antica popolazione che abitò il Messico in epoca precolombiana.
[21] E. Zolla - I letterati e lo sciamano - Marsilio, Venezia, 1989
[22] E. Zolla, op. cit., pp. 386-387, 391.
[23] E. Zolla, op. cit., p. 390.
[24] C. Castaneda - Tensegrità - p. 30, Rizzoli, Milano, 1997.
[25] B. Epstein - Castaneda: sono l'ultimo stregone - La Stampa, Torino, 31/01/96.
[26] M. Eliade - Lo sciamanismo e le tecniche dell'estasi - p. 22, Mediterranee, Roma,1995.
[27] M. Eliade, op. cit., p. 23.
[28] M. Eliade, op. cit., p. 26.
[29] La descrizione della via di conoscenza è tratta da C. Castaneda - A scuola dallo stregone - pp. 69-72, Astrolabio, Roma, 1970.
[30] Derivante dalla lingua nahua è il linguaggio che gli uto-aztechi imposero in tutta la Mesoamerica
[31] C. Castaneda - L'isola del Tonal - p. 178, Rizzoli, Milano, 1978.
[32] M. Cocagnac - Rencontres avec Carlos Castaneda et Pachita la guérisseuse - p.117, Albin Michel, Paris, 1991.
[33] C. Castaneda, op. cit., p. 178.
[34] C. Castaneda, op. cit., p. 185 e seg.
* non nel senso di 'rendere testimonianza', ma nel senso di 'assistere' a Dio, quasi 'percepirlo'.
[35] C. Castaneda, op. cit., pp. 186-187.
[36] C. Castaneda, op. cit., pp. 187-188.
[37] C. Castaneda - Viaggio a Ixtlan - p. 232, Astrolabio, Roma, 1973.
[38] Tratto da: Mindell A. -Il corpo che sogna - pp. 14-15, ediz. red. 1990; in rif. a C.G.Yung Pratica della psicoterapia , in Opere, vol. XVI, Boringhieri, Torino, 1981.
[39] R. Bandler, J. Grinder - La Ristrutturazione - Astrolabio, Roma, 1983.
[40] R. Bandler, J. Grinder e altri - Programmazione Neurolinguistica - P. 17, Astrolabio, Roma, 1982.
[41] A. Jodorowsky - Psicomagia - p. 108, Feltrinelli, Milano, 1997.
[42] B. Dubant-M. Marguerie - Castaneda, la via del guerriero - p. 46, Libreria Romana, Roma, 1992.
[43] C.S. Hall-G. Lindzey - Teorie della personalità - p. 108, Boringhieri, Torino, 1973.
[44] C. Castaneda - Viaggio a Ixtlan - pp. 19-20, Astrolabio, Roma, 1973.
[45] C.S. Pearson - L'eroe dentro di noi - p. 21, Astrolabio, Roma, 1990.
[46] R. Rohr - esercizi dell'anima per soli uomini - p.17-18, Piemme, Casale Monferrato (AL), 1997.
[47] Durkheim 1912: 625-26, citato in: E. Comba - Il cerchio della vita - p.27, Il Segnalibro, Torino, 1999.
[48] E. Comba, op. cit., p.27.